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Lettera Testo di Eugenio Giliberti nel catalogo di Memoria Ribelle |
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Le mostre
inventariali si fanno per mettersi al sicuro dalle dimenticanze, ma si
finisce sempre per dimenticare qualcosa o qualcuno, si stendono sui
dimenticati ombre poi più dure ad essere dissipate, mortificando uomini
e cose, come dettagli superflui.
Di più per un periodo, già lontano, ma
che è stato vissuto in un clima di grande partecipazione. Si fosse dovuto far la storia delle immagini di quegli anni, avrei ceduto il mio testimone a chi ne avesse il titolo ed il fegato. Io ho potuto solo esaminare un sentimento di quegli anni, il mio, e lasciare che fluisse quel senso di doppia nostalgia di cui voglio parlare. Si tratta del mio stretto e personale punto di osservazione, dal quale qualcosa ho visto, in tempo, e al quale sono tornato con altri occhiali per guardare ancora. Normalmente si intende per nostalgia una
sentimento di dispiacere per la perdita o per la lontananza da qualcosa
da qualcuno, da un’esperienza, da una tempo.
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beneficio dei miei amici, per giustificare la mia assenza quando le prime non erano abbastanza efficaci, ma intanto c’ero, c’eravamo, ci preparavamo ad entrare in gioco.
Dopo l’occupazione
della scuola il grande Stornaiuolo mi fece la tessera della FGCI. La
nascosi in un libro (la ritrovò l’anno dopo mio padre ma mi sembrò che
fossero passati decenni). Dopo poco confidai a Giacomo (la mia sorte per
quell’anno scolastico era segnata, sarei stato bocciato in applicazione
della lotta per la
promozione garantita),
di essere entrato in Lotta
Contigua (sic!). Di Lotta Continua
avevo solo sentito parlare, avevo equivocato sul nome, ed imbrogliato
con la mia adesione non sapendo da dove cominciare per darla.
Avevo seguito una trasmissione sui Tupamaros
(credo che fosse TV7) dove si raccontava della guerriglia urbana e della
scelta della “contiguità” del gruppo. Partigiani che non vanno in
montagna, fanno una vita apparentemente normale e compiono azioni
clandestine. L’aggettivo “contigua”, quindi, quadrava bene, perché
rendeva compatibile la mia condizione di giovane cittadino metropolitano
senza foreste o campi di battaglia, eroe clandestino a casa di mamma e
papà, con l’ideale del bandito buono, da Robin Hood alla Primula Rossa,
da Bube agli eroi della “battaglia di Algeri”.
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Rosso fino ai capelli quando
mi resi conto dell’errore, poi fui quasi preso per una spia: non avevo
ancora messo piede nella sede di Bagnoli, ed Attilio, che invece ci era
stato e aveva un look perfetto (barba di una settimana che pareva almeno
di tre giorni, cappotto ed aria trasandati) non avendomi mai visto,
insinuò il dubbio. Fortunatamente ero stato già reclutato da Roberto
Velardi - ma soprattutto
dalle ragazze della “Mazzini” con cui
si usciva il sabato sera - e, pure se non avevo partecipato alle prime
riunioni a Bagnoli, sapevo parlare e avevo pacchi di quindicinali da
leggere e da vendere a scuola per fugare ogni ombra: tutta la mia
cultura politica, ma era già molto di più della media. La mattina alle otto e venti, quel giorno, la
folla di studenti in attesa di accedere ai tre piani del condominio di
Via Conte della Cerra dove era impropriamente collocata la succursale
del Galileo Galilei rimase immobile, non venne inghiottita dall’imbuto
della stradina in discesa dove si accalcava vociando tra i mal di pancia
dei non perfettamente preparati, le cantilene ripassate a memoria tra le
ragazze studiose, e gli scherzi pesanti dei ripetenti.
Tutta quella folla
chiara non si mosse di un centimetro. Poi un ragazzo alto, di quinta,
proveniente dalla centrale, ci guidò verso i vicoli di Montesanto per
raggiungere la grande manifestazione del Movimento degli studenti. Non
ebbi la sensazione di quanti fossimo, neanche posso dirlo adesso, perché
di quell’esperienza non ho mai dovuto rivendicare nulla, anzi, ne
beccammo un bel 7 in condotta collettivo e basta. Mi ricordo che finimmo
in piazza Plebiscito, dove ci disperdemmo tra le macchine parcheggiate.
Compii quell’esperienza in maniera molto solitaria, molto concentrato
per cercare di capire, per mettermi comodo in quell’insolita situazione.
E non ne capii molto. Credo che urlai, strinsi il pugno nonostante in
quel periodo si convivesse con i fascisti, che partecipavano alle
manifestazioni attivamente per rivendicarne un aspetto
corporativo, perché mi sembrava
che fosse la cosa da fare, che fosse il gesto fisico nel quale poteva
esplodere la nostra vitalità compressa, di bravi ragazzi vomeresi con
famiglie apprensive e conservatrici. Quell’anno rimediai un rimando a settembre in Francese. Avevo avuto la prima vera grande mortificazione scolastica alla fine del primo trimestre, per un 4 allo scritto sulla pagella, inesorabilmente scritto in lettere con bella grafia adulta, con penna nera. Allora, con un quattro in pagella, si disegnava un destino. Ho interrotto per qualche giorno il contatto e la concentrazione su questo testo ed ho potuto intanto leggere “lettere da una città bruciata” di Erri De Luca e “la banda Bellini” di Marco Philopat. Ho cominciato da questo attratto dalla coincidenza del nome Bellini.Staccato dalla mia delegazione che era
fortunosamente arrivata da Napoli, vidi sfilare tutta la manifestazione
- fu l’ultima volta che feci lo spettatore - ero emozionato per la
dimostrazione di forza ed affascinato poi dalla sfrontatezza con la
quale quelli di Milano avevano tagliato la piazza piena di FGCI,
fischiato e gettato lo scompiglio facendo temere l’attacco al palco dal
quale parlava Sandro Pertini. Fin qui, l’esperienza diretta, che poi diventò
quella di una militanza assoluta ed il disegno di una vita che non
poteva ammettere di essere provvisorio. Mentre avveniva in famiglia
tutto quel che doveva: la nostra crescita, l’opposizione al modello di
figlio intelligente, tranquillo e proiettato verso qualche carriera
prestigiosa e redditizia, al quale avevo aderito crescendo con il dottor
Kildare, ogni risma di eroe americano della seconda guerra mondiale, e
il mito della grande pittura,
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In quel periodo facevo parecchio su e giù con
Roma e Firenze e moltissime riunioni. Ho immaginato che un giorno, che so, il 4 ottobre del 1974 per esempio, invece di scappar via da Firenze per prendere l’ultimo treno utile per Napoli, mi trattenessi per la sera e fossi invitato ad assistere all’inaugurazione della mostra di Mario Merz da Area, in piazza Saltarelli. La cosa non avvenne, ma sarebbe potuta avvenire anche il 1° febbraio del 1975, il giorno dell’inaugurazione di Anselmo. Sarebbe stato subito dopo il congresso di Roma e l’uscita da LC di quelli della Corrente (quasi tutti milanesi, qualche napoletano ed anche Francesca Solari che è svizzera ma in quel periodo viveva a Napoli), oppure, seguendo il lavoro che si faceva allora con le comunità di operai immigrati in Germania, a Monaco di Baviera, dove, in Georgenstraße dove Umberto Simoncini si occupava della succursale tedesca della galleria. Cosa sarebbe stato del
mio mondo davanti ai numeri Fibonacci di Mario Merz o alla proiezione
della parola
particolare
di Giovanni Anselmo sul battiscopa della galleria? Con lo sguardo di
oggi la bellissima fotografia di Tano della ragazza del movimento
col viso seminascosto da un foulard tra le spalle di due carabinieri con
bandoliera si specchia con tutta naturalezza nell’immagine di Beuys de
“la rivoluzione siamo noi”. Ma la cosa non è tanto semplice. So che
allora non l’avremmo capita perché il suo linguaggio era al di fuori
della nostra lingua comune. La sua idea di Arte sociale scandalosamente
poetica. Da qualche altra parte del mondo le cose non stavano così.
Area, appunto, a Firenze. Abbiamo appena recuperato, quasi fortunosamente
le ultime immagini esistenti di quegli eventi, tanto preziosi per quanto
erano isolati e forse perdenti. Facce (e fogge) simili alle nostre sono
stampate sui volti di artisti e visitatori di quelle mostre. Non
migliora le cose, non appaga la mia nostalgia scoprire la somiglianza
antropologica: noi non c’eravamo. Sembra una tassa da pagare alla
storia. I momenti di accelerazione, come lo sono certamente stati quegli
anni, come lo sono per tutti noi questi giorni che rotolano verso una
guerra che sembra impossibile fermare, portano con loro una sorta di
annebbiamento. L’urgenza del pensiero agito sembra essere nemica della
sua qualità.
Mi aggiro curioso,
come molti che conosco, per le manifestazioni che nuovi movimenti
intraprendono mossi spesso da vecchie durature indignazioni. Ho visto in
televisione ragazzi italiani mascherati da terroristi suicidi. Qualche
tempo fa in Piazza del Gesù, durante uno sciopero della fame di
militanti palestinesi, mani italiane avevano scritto sull’argomento con
vernice rossa:
Palestina – una terra un popolo.
Ho pensato a Jack Sal, artista ebreo e americano. Ogni due anni, negli
ultimi anni, da quando una malattia lo portò a pensare da vicino alla
morte, Jack prende un caffè al Florian, in piazza S.Marco, davanti ad un
piccolo gruppo di amici. E’ una performance, ed il ricordo di suo padre,
ebreo in fuga da persecuzioni e miseria dell’Europa orientale tra campi
profughi e porti, in attesa di un permesso di immigrazione negli USA.
Inviterei quello scrivano imprevidente ad assistere al gesto semplice di
Jack Sal, a constatarne l’emozione ed a pensare a suo cugino, che ha
avuto in eredità dal padre un’altra emigrazione ed un altro status. In
Israele.
Ne
riceverebbe un momento di emozionante scombussolamento ed una lezione di
qualità. * * * * La ricerca delle opere di
Area è stata piuttosto difficile, mi sono avvalso della collaborazione
preziosa di alcuni testimoni del tempo, in primis Bruno Corà, direttore
artistico, Michele Guidugli “mercante” e responsabile per LC del
rapporto con gli artisti, Paolo Marchi, gallerista di Area a Firenze,
Umberto Simoncini, gallerista di Area di Monaco di Baviera, Carlo Dani,
loro
amico generoso, ristoratore, collezionista. Ma sono passati molti anni
ed opere inizialmente concepite come unità sono state smembrate, come il
lavoro di Alighiero Boetti esposto a Monaco, rimasto a lungo integro in
una collezione tedesca ed ultimamente disperso in una fiera. Molte altre
furono disperse all’origine.
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Alle schede storiche di Stefania Abbate,
circoscritte rigorosamente alla descrizione del contesto nel quale le
foto di D’Amico sono state scattate, il ruolo di concederci dei lampi di
realtà, Tano D’Amico l’ho
incontrato più volte, con Stefania ne abbiamo saccheggiato la memoria
oltre che l’archivio. Nell’introduzione al progetto parlo di ready made,
a proposito della scelta di presentare le sue foto in grande formato
forzando
il dispositivo di visione proprio delle foto di reportage, artificio
necessario, al presente, per giocare il confronto tutto sul piano
dell’arte. Piano del quale Tano è pienamente cosciente quanto lo è del
valore storico delle sue immagini: colpisce la prima frase che pronuncia
nell’intervista: - Secondo me quando ideali nuovi, valori nuovi
irrompono nella storia le prime a cambiare sono le immagini. Nel periodo
che mi ha spinto per le strade c’erano persone che non si accontentavano
di come venivano rappresentate…-.
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