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Lettera
Testo di Eugenio Giliberti nel catalogo di Memoria Ribelle

Le mostre inventariali si fanno per mettersi al sicuro dalle dimenticanze, ma si finisce sempre per dimenticare qualcosa o qualcuno, si stendono sui dimenticati ombre poi più dure ad essere dissipate, mortificando uomini e cose, come dettagli superflui.   Di più per un periodo, già lontano, ma che è stato vissuto in un clima di grande partecipazione.

Si fosse dovuto far la storia delle immagini di quegli anni, avrei ceduto il mio testimone a chi ne avesse il titolo ed il fegato. Io ho potuto solo esaminare un sentimento di quegli anni, il mio, e lasciare che fluisse quel senso di doppia nostalgia di cui voglio parlare. Si tratta del mio stretto e personale punto di osservazione, dal quale qualcosa ho visto, in tempo, e al quale sono tornato con altri occhiali per guardare ancora.

Normalmente si intende per nostalgia una sentimento di dispiacere per la perdita o per la lontananza da qualcosa da qualcuno, da un’esperienza, da una tempo.

E una nostalgia per gli anni 70 si spiega: un trentennio si è ormai intromesso tra me e loro.  Ma qui la nostalgia non è solo per un oggetto posseduto, o un’esperienza vissuta. Essa è qui intesa anche per un oggetto amato solo dopo, per un’esperienza mancante.
Come altre migliaia di miei coetanei negli anni settanta sono stato un militante della sinistra extraparlamentare. Veramente,
  avevo resistito alle prime lusinghe. Quando Giacomo Forte - siamo nel gennaio del 1970 -, mio compagno di scuola e di banco, mi aveva proposto di aderire “almeno” alla FGCI, avevo risposto che gli artisti non fanno politica attiva. Avevamo 15 anni ed eravamo studenti del terzo liceo scientifico al Galilei e pur se troppo giovani per aver fatto il ’68,  le bombe del 12 dicembre del 1969 ci avevano fatto capire che anche noi eravamo coinvolti.
Durai poco nella mia posizione isolazionista. Con Giacomo (che è proprio Giacomo Forte che qui cura la sezione dedicata alle radio) e gli altri ci vedevamo tutti i mercoledì pomeriggio per leggere “il manifesto del partito comunista”. Inventavo delle scuse a casa per poter andare alle riunioni (già le cose non andavano molto bene a scuola e dovevo essere molto circospetto), ed altre, a

beneficio dei miei amici, per giustificare la mia assenza quando le prime non erano abbastanza efficaci, ma intanto c’ero, c’eravamo, ci preparavamo ad entrare in gioco.

Quando la cosa scoppia, l’anno dopo, con l’occupazione della scuola e con i compagni più grandi che aderivano a “potere operaio”,  non facevo già più l’artista.

Dopo l’occupazione della scuola il grande Stornaiuolo mi fece la tessera della FGCI. La nascosi in un libro (la ritrovò l’anno dopo mio padre ma mi sembrò che fossero passati decenni). Dopo poco confidai a Giacomo (la mia sorte per quell’anno scolastico era segnata, sarei stato bocciato in applicazione della lotta per la promozione garantita), di essere entrato in Lotta Contigua (sic!). Di Lotta Continua avevo solo sentito parlare, avevo equivocato sul nome, ed imbrogliato con la mia adesione non sapendo da dove cominciare per darla.

Avevo seguito una trasmissione sui Tupamaros (credo che fosse TV7) dove si raccontava della guerriglia urbana e della scelta della “contiguità” del gruppo. Partigiani che non vanno in montagna, fanno una vita apparentemente normale e compiono azioni clandestine. L’aggettivo “contigua”, quindi, quadrava bene, perché rendeva compatibile la mia condizione di giovane cittadino metropolitano senza foreste o campi di battaglia, eroe clandestino a casa di mamma e papà, con l’ideale del bandito buono, da Robin Hood alla Primula Rossa, da Bube agli eroi della “battaglia di Algeri”.

 

Rosso fino ai capelli quando mi resi conto dell’errore, poi fui quasi preso per una spia: non avevo ancora messo piede nella sede di Bagnoli, ed Attilio, che invece ci era stato e aveva un look perfetto (barba di una settimana che pareva almeno di tre giorni, cappotto ed aria trasandati) non avendomi mai visto, insinuò il dubbio. Fortunatamente ero stato già reclutato da Roberto Velardi - ma soprattutto  dalle ragazze della “Mazzini” con cui si usciva il sabato sera - e, pure se non avevo partecipato alle prime riunioni a Bagnoli, sapevo parlare e avevo pacchi di quindicinali da leggere e da vendere a scuola per fugare ogni ombra: tutta la mia cultura politica, ma era già molto di più della media.
L’anno prima avevo partecipato per la prima volta ad una manifestazione.

La mattina alle otto e venti, quel giorno, la folla di studenti in attesa di accedere ai tre piani del condominio di Via Conte della Cerra dove era impropriamente collocata la succursale del Galileo Galilei rimase immobile, non venne inghiottita dall’imbuto della stradina in discesa dove si accalcava vociando tra i mal di pancia dei non perfettamente preparati, le cantilene ripassate a memoria tra le ragazze studiose, e gli scherzi pesanti dei ripetenti.

Tutta quella folla chiara non si mosse di un centimetro. Poi un ragazzo alto, di quinta, proveniente dalla centrale, ci guidò verso i vicoli di Montesanto per raggiungere la grande manifestazione del Movimento degli studenti. Non ebbi la sensazione di quanti fossimo, neanche posso dirlo adesso, perché di quell’esperienza non ho mai dovuto rivendicare nulla, anzi, ne beccammo un bel 7 in condotta collettivo e basta. Mi ricordo che finimmo in piazza Plebiscito, dove ci disperdemmo tra le macchine parcheggiate. Compii quell’esperienza in maniera molto solitaria, molto concentrato per cercare di capire, per mettermi comodo in quell’insolita situazione. E non ne capii molto. Credo che urlai, strinsi il pugno nonostante in quel periodo si convivesse con i fascisti, che partecipavano alle manifestazioni attivamente per rivendicarne un aspetto corporativo, perché mi sembrava che fosse la cosa da fare, che fosse il gesto fisico nel quale poteva esplodere la nostra vitalità compressa, di bravi ragazzi vomeresi con famiglie apprensive e conservatrici.

Quell’anno rimediai un rimando a settembre in Francese. Avevo avuto la prima vera grande mortificazione scolastica alla fine del primo trimestre, per un 4 allo scritto sulla pagella, inesorabilmente scritto in lettere con bella grafia adulta, con penna nera. Allora, con un quattro in pagella, si disegnava un destino.  

Ho interrotto per qualche giorno il contatto e la concentrazione su questo testo ed ho potuto intanto leggere “lettere da una città bruciata” di Erri De Luca e “la banda Bellini” di Marco Philopat. Ho cominciato da questo attratto dalla coincidenza del nome Bellini.
Il primo incontro promosso da Igina Di Napoli, nel quale cominciò a configurarsi l’idea di questa mostra, avveniva negli uffici del Teatro Nuovo, con Mario Franco e Vittorio Dini per vedere la cassetta del film di Francesca Solari che dà il titolo a questa edizione di Memoria Ribelle. Nel film Francesca racconta di Giorgio Bellini, delle sue piraterie televisive, della sua persecuzione e parabola giudiziaria. Il personaggio di Marco Philopat appartiene ad un’altra area del movimento, l’ho scoperto dopo poche righe, ma poi nello sforzo di far corrispondere il racconto alla mia esperienza, sono stato letteralmente trasportato  nei miei quasi diciannove e sono rimasto attaccato a quelle pagine fino alla fine.
Ero a Torino - non avevo mai sentito tanto freddo prima – dal giorno prima della grande manifestazione per il Cile, c’era una riunione nazionale degli studenti medi nella sede di Corso S. Maurizio (singolare coincidenza che nello stesso fabbricato avesse sede anche la galleria di Gianenzo Sperone, ma chi lo sapeva chi fosse Gianenzo Sperone?). La mattina ero andato con altri compagni alla stazione per vedere arrivare i treni speciali. L’Andrea Bellini raccontato da Marco Philopat era certamente tra quei ragazzi che vidi scendere disciplinati, combattivi ed inquadrati militarmente. Quelli del Casoretto, in testa al servizio d’ordine milanese di LC, composto di 500 “uomini” tra i quindici e i vent’anni.

Staccato dalla mia delegazione che era fortunosamente arrivata da Napoli, vidi sfilare tutta la manifestazione - fu l’ultima volta che feci lo spettatore - ero emozionato per la dimostrazione di forza ed affascinato poi dalla sfrontatezza con la quale quelli di Milano avevano tagliato la piazza piena di FGCI, fischiato e gettato lo scompiglio facendo temere l’attacco al palco dal quale parlava Sandro Pertini.

Fin qui, l’esperienza diretta, che poi diventò quella di una militanza assoluta ed il disegno di una vita che non poteva ammettere di essere provvisorio. Mentre avveniva in famiglia tutto quel che doveva: la nostra crescita, l’opposizione al modello di figlio intelligente, tranquillo e proiettato verso qualche carriera prestigiosa e redditizia, al quale avevo aderito crescendo con il dottor Kildare, ogni risma di eroe americano della seconda guerra mondiale, e il mito della grande pittura,

Tutto il mondo era fuori.



In quel periodo facevo parecchio su e giù con Roma e Firenze e moltissime riunioni.

Ho immaginato che un giorno, che so, il 4 ottobre del 1974 per esempio, invece di scappar via da Firenze per prendere l’ultimo treno utile per Napoli, mi trattenessi per la sera e fossi invitato ad assistere all’inaugurazione della mostra di Mario Merz da Area, in piazza Saltarelli. La cosa non avvenne, ma sarebbe potuta avvenire anche il 1° febbraio del 1975, il giorno dell’inaugurazione di Anselmo. Sarebbe stato subito dopo il congresso di Roma e l’uscita da LC di quelli della Corrente (quasi tutti milanesi, qualche napoletano ed anche Francesca Solari che è svizzera ma in quel periodo viveva a Napoli), oppure, seguendo il lavoro che si faceva allora con le comunità di operai immigrati in Germania, a Monaco  di Baviera, dove, in Georgenstraße dove Umberto Simoncini si occupava della succursale tedesca della galleria.

Cosa sarebbe stato del mio mondo davanti ai numeri Fibonacci di Mario Merz o alla proiezione della parola  particolare di Giovanni Anselmo sul battiscopa della galleria? Con lo sguardo di oggi la bellissima fotografia di Tano della ragazza del movimento col viso seminascosto da un foulard tra le spalle di due carabinieri con bandoliera si specchia con tutta naturalezza nell’immagine di Beuys de “la rivoluzione siamo noi”. Ma la cosa non è tanto semplice. So che allora non l’avremmo capita perché il suo linguaggio era al di fuori della nostra lingua comune. La sua idea di Arte sociale scandalosamente poetica. Da qualche altra parte del mondo le cose non stavano così. Area, appunto, a Firenze.

Abbiamo appena recuperato, quasi fortunosamente le ultime immagini esistenti di quegli eventi, tanto preziosi per quanto erano isolati e forse perdenti. Facce (e fogge) simili alle nostre sono stampate sui volti di artisti e visitatori di quelle mostre. Non migliora le cose, non appaga la mia nostalgia scoprire la somiglianza antropologica: noi non c’eravamo. Sembra una tassa da pagare alla storia. I momenti di accelerazione, come lo sono certamente stati quegli anni, come lo sono per tutti noi questi giorni che rotolano verso una guerra che sembra impossibile fermare, portano con loro una sorta di annebbiamento. L’urgenza del pensiero agito sembra essere nemica della sua qualità.

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Mi aggiro curioso, come molti che conosco, per le manifestazioni che nuovi movimenti intraprendono mossi spesso da vecchie durature indignazioni. Ho visto in televisione ragazzi italiani mascherati da terroristi suicidi. Qualche tempo fa in Piazza del Gesù, durante uno sciopero della fame di militanti palestinesi, mani italiane avevano scritto sull’argomento con vernice rossa: Palestina – una terra un popolo. Ho pensato a Jack Sal, artista ebreo e americano. Ogni due anni, negli ultimi anni, da quando una malattia lo portò a pensare da vicino alla morte, Jack prende un caffè al Florian, in piazza S.Marco, davanti ad un piccolo gruppo di amici. E’ una performance, ed il ricordo di suo padre, ebreo in fuga da persecuzioni e miseria dell’Europa orientale tra campi profughi e porti, in attesa di un permesso di immigrazione negli USA. Inviterei quello scrivano imprevidente ad assistere al gesto semplice di Jack Sal, a constatarne l’emozione ed a pensare a suo cugino, che ha avuto in eredità dal padre un’altra emigrazione ed un altro status. In Israele.  Ne riceverebbe un momento di emozionante scombussolamento ed una lezione di qualità.

* * * * 

La ricerca delle opere di Area è stata piuttosto difficile, mi sono avvalso della collaborazione preziosa di alcuni testimoni del tempo, in primis Bruno Corà, direttore artistico, Michele Guidugli “mercante” e responsabile per LC del rapporto con gli artisti, Paolo Marchi, gallerista di Area a Firenze, Umberto Simoncini, gallerista di Area di Monaco di Baviera, Carlo Dani,  loro amico generoso, ristoratore, collezionista. Ma sono passati molti anni ed opere inizialmente concepite come unità sono state smembrate, come il lavoro di Alighiero Boetti esposto a Monaco, rimasto a lungo integro in una collezione tedesca ed ultimamente disperso in una fiera. Molte altre furono disperse all’origine.

Abbiamo potuto ricostruire il clima di Area agendo elasticamente, scegliendo di volta in volta il mezzo più adatto allo scopo. In alcuni casi gli artisti hanno ricostruito l’opera: così per Diego Esposito la cui installazione che fu distrutta e riformulata in “quadri” a beneficio del collezionista, ed oggi torna a vivere della sua vita originaria grazie all’artista stesso. Sarà così anche per Lucio Pozzi che ci ha guidato via e-mail da New York. Per i wall drawing di Sol Lewitt che sono ricostruiti nel modello a grandezza naturale dello spazio della galleria di Firenze.

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Alle schede storiche di Stefania Abbate, circoscritte rigorosamente alla descrizione del contesto nel quale le foto di D’Amico sono state scattate, il ruolo di concederci dei lampi di realtà,

Tano D’Amico l’ho incontrato più volte, con Stefania ne abbiamo saccheggiato la memoria oltre che l’archivio. Nell’introduzione al progetto parlo di ready made, a proposito della scelta di presentare le sue foto in grande formato  forzando il dispositivo di visione proprio delle foto di reportage, artificio necessario, al presente, per giocare il confronto tutto sul piano dell’arte. Piano del quale Tano è pienamente cosciente quanto lo è del valore storico delle sue immagini: colpisce la prima frase che pronuncia nell’intervista:

- Secondo me quando ideali nuovi, valori nuovi irrompono nella storia le prime a cambiare sono le immagini. Nel periodo che mi ha spinto per le strade c’erano persone che non si accontentavano di come venivano rappresentate…-.

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Molti artisti appoggiavano strutture e gruppi del movimento donando loro opere. Tale slancio non sempre era ricambiato con la stessa moneta. Mentre Area tentava una strada diversa di coinvolgimento e di partecipazione, in generale nel movimento prevaleva un atteggiamento predatorio,  ma tant’è, c’era un certo giro di opere d’arte contemporanea in ambienti vicini alle organizzazioni extraparlamentari, destinato a gallerie d’arte, italiane e tedesche soprattutto . Quelli di Potere Operaio, che avevano utilizzato proprio una foto di Tano (in mostra) per il primo numero del loro nuovo giornale, gli commissionavano un lavoro che lui trovava particolarmente noioso. Condotto quasi a forza negli studi degli artisti con la sua Leika  doveva scattare delle foto all’artista stesso davanti all’opera appena ultimata che servivano a convincere i collezionisti e i galleristi della sua autenticità. Purtroppo Tano non amava quel lavoro e non ne ha conservato traccia ed ora non ci resta che raccontare l’episodio particolarmente curioso..