Dialgo Inccrociato
Eugenio Giliberti / Aldo Iori / Angela Tecce
Aldo a Eugenio - Caro Eugenio, approfitto di qualche minuto di calma per sottoporti alcune impressioni. L’ipotesi di strutturare la mostra sull’idea del ‘lavoro dell’arte’ m’incuriosisce: interessante scoprire il percorso spaziotemporale che l’opera possiede. Capire ciò che il lavoro attraversa, non tanto le implicazioni autobiografiche e antropologiche, quanto ciò che l’artista dona tramite l’opera e come questa poi mantienein sé il ricordo di ciò che ha attraversato nel travaglio della genesi. Il tuo progetto complessivo mi pare interessante poiché nel processo speculativo che l’opera attraversa tu poni elementi che riguardano anche il progetto di un tuo (e non solo tuo) vissuto : il pensiero del lavoro, il lavoro del capannone, le persone che ti stanno vicino, ecc. Non mi interessa ora come e perché tu giunga a questo; piuttosto sono sempre curioso di come l’opera mantenga in sé memoria, qualitativa, di ciò che attraversa Ciò che la compone è materia, mentre qui si tratta di altro: di come essa viene ‘contaminata’ e di come essa restituisce qualità e memoria nell’essere pienamente visione di fronte all’osservatore. Tu lo fai avvenire mentre definisci un paesaggio per lo sguardo; uno spazio ove sia possibile dilatare il quesito che l’opera pone oggi. Lontano da suggestioni tardoromantiche o neo comportamentali. La dimensione che vuoi esperire con le opere mi pare questione inedita perché lo fai con la debita distanza, puntualità ed ironia; più che altrove in altre occasioni. Ne parlavamo, ricordi?, affinando lo sguardo verso la finestrella rossa che dalla città ancora mostrava un resto, come se ci fosse un residuo rimasto tra l’involontario e la furbizia (intesa come riscatto dell’opera). Devo correre a un concerto. Stai bene e aspira i profumi della tua terra stasera bagnata.
Angela a Eugenio - Quando sono venuta a Rotondi ho pensato e detto a Lucio che l’’operazione’ che andavi costruendo non era un lavoro concreto ma un’opera d’arte. D’altronde per me l’arte e la vita , concreta o no che sia, non sono su due piani differenti. Il tuo fare ha sempre una qualità che attiene all’arte: spostare la percezione oltre il senso che le parole, gesti, sentimenti, azioni posseggono nella quotidianità.
Aldo ad Angela - Cara Angela, sono andato a Rotondi da Eugenio e abbiamo lavorato assai alla mostra di gennaio. Faceva freddo con la neve sulle montagne e ci siamo riscaldati spaccando la legna. Il lavoro ha prodotto calore umano e combustibile.
Troverai tanto prodotto del nostro vigore e del nostro, in fondo anche, gioco disperso nello spazio dell’aia e pronto per il camino. Il lavoro di Eugenio procede bene al di qua e al di là della strada seguendo un pensiero molto teso. Il rumore delle macchine della falegnameria si affianca all’odore della cera che si fonde. Il paesaggio spesso è ahimè devastato dal puzzo dell’immondizia bruciata e ciò riconduce drammaticamente alla realtà. Ma del paesaggio ti scriverò nei prossimi giorni. Ci vediamo al Madre. Stai bene.
Aldo a Eugenio - Dal treno in ritardo. Caro Eugenio, in questi anni vedo che ritrovi sempre di più un legame non astratto con la tua personale realtà: la tua biografia, il tuo tempo, i tuoi oggetti anche utensili del fare, i tuoi alter/ego in cera (sempre per me inquietanti nel loro apparire negli spazi del vivere), la costruzione della masseria e ora il lavoro nel tuo capannone. In fondo anche la messa alla prova fisica (mi parlavi una volta di sfinimento) nei quadratini colorati è segno di un dislocamento ulteriore dello sguardo: sai che la questione mi affascina soprattutto quando vedo il superamento della soglia della visione. Tu allo sguardo tieni, e lo coltivi nelle sue proprietà (disegni, disegni) e mi pare che lo distilli poi nella dimensione più plastica del colore. Ma questo è un altro capitolo. Quando parlammo la prima volta a Roma della mostra mi parlasti dell’opera come rischio. Penso alla parola rischio come nominazione di qualcosa di più vasto legato alla conoscenza del mondo. L’incontro con l’opera diviene rischio di una tentazione. Il rischio genera tentazione piuttosto che paura. Tentazione di sovvertire ciò che diamo per acquisito, tentazione a dischiudere nuove possibilità che l’opera ci mostra come possibili, a crescere nell’ampliamento della veduta possibile dal nostro finestrino posto nel lato in ombra della torre (ricordi i diari del Carucci?). Davanti a un’opera non ci si può girare sul fianco e continuare a dormire, sognando forse. Angela a Eugenio - Prima di partire ho visto la foto che mi hai mandato. A Iori pare faccia proprio bene spaccare la legna. A me invece confermo no, prima perché sono una signora, poi perché sono un po’ stanca di faticare sempre, baci e a presto dal mio nuovo difficile cellulare quindi scusa la forma. Eugenio ad Aldo - In città, per tre giorni di seguito. Mi sembra un lusso eccessivo con tutto quello che c’è da fare a Rotondi ma mai come ora ne sentivo il bisogno. Così abbiamo anche potuto parlarci da vicino tutti e tre. Angela rifiuta di spaccar legna: lei la legna la mette al fuoco. Abbiamo tanto evitato di cadere nei luoghi comuni di genere nelle nostre conversazioni e fin nei nostri pensieri e l’’Angela del focolare’ ora ci sorprende con la sua naturalezza ‘femminile’. Chissà che non sia la vita scomoda di campagna, che ci impegna con necessità desuete o mai conosciute, a metterci di fronte al residuo dei nostri ‘ruoli’. Interessante. Intanto la direttrice del museo ci accenderà il fuoco. Aldo a d Angela e Eugenio - Con malattia da raffreddamento. Certo all’immagine di ‘Angela del focolare’ non ci avevo pensato: una volta c’era quello del ciclostile. Dato il malanno preso era meglio se nell’ultima venuta ci fosse stata Angela a mettere legna nel focolare. Non credo che vi sia una ‘naturalezza’ nell’assumere i ruoli. Certamente la cultura e l’abitudine ci condiziona forse anche geneticamente come propensione verso qualcosa. Non credo che il cambio di ruolo sia sempre indolore: il mondo ci richiede continuamente un ruolo al quale a volte per vari motivi ci sottraiamo e ne assumiamo un altro. E poi da qui si passa alla questione maschile / femminile del lavoro. Anche nell’arte.
Eugenio ad Angela e ad Aldo - Sta’ storia dei ruoli... non volevo farne una cosa pesante. Certo è che se non provvedo non mi scaldo. Non devo dimenticare mai, qualunque cosa faccia, che la legna si consuma e se lascio spegnere una stufa il gelo prende subito il sopravvento in casa. Il freddo mi ha costretto ad utilizzare, un ciocco alla volta, tutta la legna sparsa nell’aia. Ero quasi pronto per la foto e ora devo far tutto daccapo. La chiamerò ‘Uno alla volta’. Fa un freddo cane, ma meno arrabbiato degli ultimi giorni passati qui in campagna. Gli operai oggi hanno lavorato solo per metà giornata perché Maurizio si è dato prigioniero della neve di Roccaraso. Mente. La scodella avanza e ho avuto modo finalmente di vedere su un visore decente le riprese fatte fin qui. La qualità delle immagini è soddisfacente. ‘Polpetta’, la gattina sopravvissuta ai pericolosi attraversamenti della strada provinciale che divide la casa colonica dal fondo, non mi ha lasciato un minuto. Ho lavorato tutto il pomeriggio con lei appollaiata sulla mia spalla sinistra, ora intenta a succhiare il bavero del mio giaccone, ora a seguire il pennello intinto di cera calda. Ora è molto impegnata a succhiare un lembo della mia sciarpa.
Aldo ad Angela e a Eugenio - Per l’osservatore la questione è altra. Seppur per l’artista intrinsecamente legate, l’arte e la vita, è ciò che viene offerto alla visione e al pensiero che muove l’attenzione. L’artista alla fine deve essere comunque assente. Come se ci fosse il committente ma non l’esecutore. E la sapienza emana dal fare ed è di ciò che necessita dissertare. Buon anno.
Eugenio ad Aldo - Rispondo con ritardo (ma ti abituerai ai miei ritardi senza soffrire?) sono a Napoli ed è la giornata un po’ vuota dell’ultimo dell’anno. Vuota perché per tradizione non si fa un pasto regolare nell’attesa dell’abbuffata serale, vuota perché si vive nell’attesa della fine, dell’esplosione di follia dei fuochi e delle cose gettate dalle finestre. La città è rumorosa come al solito, con in più il sottofondo di botti ‘pubblicitari’ dei venditori improvvisati. Cercherò l’equilibrio. Metterò Giovanni a spaccare legna a sufficienza per un’intera giornata. Edoardo sta costruendo la ‘stanza’, venerdì tutto il laboratorio lavorerà alle cornici. ‘Il Miracolo’, ‘Underground’, sono i titoli delle due interviste già pronte. L’intervista di Maurizio sarà fatta il 2 mattina. Ma poi bisognerà pensare alla cosa dal punto di
vista teorico. Cosa sono queste interviste? Anche se nessuno avrà il coraggio di chiederlo, dobbiamo avere una risposta. Definiscono il paesaggio? E il paesaggio non è un dono casuale della natura davanti al quale mi fermo rapito a registrarne i fremiti, ma un allestimento preordinato. Un teatrino vivente dove i comportamenti e le intemperanze dei personaggi sono foriere di continue sorprese e rivolgimenti di fronte. Un’azione sociale che vuole rivoltare un destino (che forse è solo il mio destino). Vedi tu.
Aldo a Eugenio - Tredoponatale. Sto meglio e mi sto riprendendo dopo i giorni del raffreddamento. Ho ritirato da Giacomo gli inviti e, dopo una fila tosta, li ho spediti a casa tua a Napoli. Il rosso non è proprio Ferrari ma va bene (questi tipografi che non conoscono la Ferrari...). La galleria sta ritornando candida. Angela è laconica (avrà un fax in montagna?). La questione dei ruoli non volevo che fosse una cosa pesante. Già. È una cosa cui penso e credo che in fondo non sia un problema se non se fa un problema al momento di saltare lo steccato, il confine e conquistare la libertà. Certamente, ho spesso apprezzato negli artisti il loro uscire da un ruolo tout court ‘stilistico’ di cui erano prigionieri per assumere nuove identità interessanti (cfr il periodo degli ‘oggetti in meno’ di Pistoletto o di altri artisti). Sarebbe interessante appropriarsi, acquisire la capacità, o piuttosto l’intelligenza atta a modificare strategicamente il proprio ruolo per entrare meglio nella realtà per la crescita di se stessi e dell’arte. Non parlo certo di camaleontismo opportunista, comprendi. La carta dei Tarocchi che mi ha sempre affascinato è ‘l’appeso’ (spesso un giullare appeso per i piedi) che indica proprio l’uscita dal proprio ruolo per vedere il mondo da un altro punto di vista. Sempre il problema dello sguardo. E se l’arte non fosse anche luogo di questo rovesciamento, singolare ‘nave dei folli’ che naviga tra le convenzioni di sistemi che la vogliono servizievole, forse non ne saremmo tanto attratti. E il problema è quindi misurare la propria forza e di conseguenza la propria libertà nel sottile confine del proprio ruolo. Non si lambisce così un po’ anche il tema della mostra?
Ma veniamo al freddo. Certo se consumi la legna per scaldarti mentre lavori non farai mai la foto dei ceppi spaccati. Devo forse tornare a Rotondicountry per spaccare la legna? Trova un equilibrio tra il produrre e il consumare. Un equilibrio fragile. Ah, mi sono ripromesso di parlarvi della fragilità più avanti nel tempo. Sono contento che il volume concavo stia procedendo. Ho sentito Mariapia che presto scenderà a fare da soggetto per le riprese. Nel nuovo anno. Angela a Eugenio - Il tuo sms è arrivato solo ora. Qui c’è stato una specie di black out. Il messaggio di Aldo l’ho perso nel mio nuovo cellulare, me lo invii di nuovo, era complesso e devo pensarci su. Baci e auguri.
Aldo a Eugenio - Tre del nuovoanno. Penso che tu ti stia ponendo in una condizione dalla quale difficilmente potrai sottrarti. Ciò che stai facendo lo intendo strettamente legato, come da sottile fil rouge, ad altri tuoi lavori precedenti, dal Canada a Castel Sant’Elmo. Il senso ‘politico’ del lavoro si va accentuando. Non certo nella logica del Totalkunstwerk da cui sei lontano né in quella della sovrapposizione arte/vita (da Duchamp a Klein). Per te la questione mi sembra si ponga in modo differente. L’appartenenza ad un tempo e ad un luogo condiziona più dei geni. La visione si apre alla totalità nella quale il ‘modus operandi’ ed il ‘modus vivendi’ (ricordi a Capodimonte la nostra discussione, quanti anni fa?) si vanno ad affiancare, non sovrapporre. Il Capannone non lo vedo come operazione estetica, non nel senso tradizionale comunque. Tu mi dici che lì cerchi una non facile via operativa.Tu sei sempre il medesimo. Ma il mio compito è distinguere ciò che può essere comune attitudine illuminata da un’attitudine che ci riporta all’ambito dell’arte. Individuare se esiste un momento dove scatta la differenza, dove ciò diviene evidenza.
La strada divide la masseria dal capannone. Tu sei il medesimo al di qua e al di là della strada. E posso essere d’accordo con te quando mi parli di paesaggio. Entrambi, la masseria e il capannone, pongono punti di vista differenti ed in essi il tuo operare muta il senso dello sguardo. Davanti ad un paesaggio sono sempre interessato al dettaglio. Mi hai inviato la mappa catastale e ho cercato di osservarla facendo coincidere la mia esperienza nel luogo con il disegno. Sulla carta i numeri e le linee (noto la formazione di i triangoli che richiamano auree dimensioni) creano una visione totalmente aliena dal reale, come se fosse altro da ciò di cui si può avere esperienza. In fondo è un’interpretazione linguistica, un’astrazione molto forte che si attua proprio nel credere fermamente che una cosa possa corrispondere ad un’altra. Non voglio sottrarmi alla questione dell’opera legata al fare, alla vita. Il punto di vista dell’osservatore sempre mi interessa, poiché da quella ritengo si debba partire.
Lo sguardo ‘distante’ ed astratto che tu mi proponi con la mappa è forse la messa in gioco di un coinvolgimento e la messa in discussione dei metodi di rappresentazione abituali e convenzionali. Il paesaggio tecnico e zenitale mi offre l’immagine altra di ciò che trovo poi nel ‘plastico’ sviluppo che presenterai in galleria. Cosa sono questi giochi planimetrici? Non mi importa se ce lo domanderanno. Deve essere chiaro per me il loro ruolo nella strategia del sistema di elementi che porrai nello spazio espositivo. Tutto deve essere ricondotto comunque al pensiero iniziale della ‘Working class’ perché in esso è posta la domanda dell’opera.
Angela a Eugenio e Aldo - Prima di ritornare definitivamente dalle vacanze, posso finalmente usare un computer e leggo tutto il lavoro finora fatto da Eugenio e Aldo. Mi sembra che gli argomenti della discussione siano tanti, ma tre mi riguardano più da vicino. Il primo mi sembra inevitabile a questo punto: i ruoli. Avete entrambi, Eugenio e Aldo, parlato di maschile-femminile ed è vero che ho rivendicato il mio essere anche ‘angelo del focolare’, ma per me c’era qualcosa d’altro: sottolineare una fatica della quotidianità che ormai nella mia vita di ‘direttrice di un museo’ pesa sempre di più a scapito di un ‘sentire’ e ‘vedere’ che sono la radice del mio agire. Rivendicare dunque, nell’occuparmi del lavoro di Eugenio - che da sempre ho l’impressione mi corrisponda - la possibilità di guardare le motivazioni stringenti che spingono alcuni di noi a pensare che esiste una soglia del mero esistere che l’arte invece oltrepassa.
A questo punto siamo giunti all’argomento numero due: arte e vita. Rispondo ad Aldo: lungi da me pensare ad un vitalismo estetico esistenziale a proposito del lavoro di Eugenio. Al contrario io penso proprio che la distanza riflessiva che Eugenio interpone tra sé e il fare è tutto tranne che ‘concreta’. E’ invece distillare dai comportamenti usuali della vita quali intrattenere rapporti sociali, guadagnare per vivere, occuparsi di sé e degli altri dal punto di vista materiale, affettivo etc., elementi astratti di senso. Ecco quindi l’argomento numero tre: il paesaggio. Rotondi, la mappa catastale - tipica forma astratta di rappresentazione - una comunità di individui, anzi lavoratori, piccola ma codificata in modo tradizionale dalla diversità dei ruoli tra imprenditore e operai, anche se apparentemente democraticamente negati, la casa, i capannoni, i materiali grezzi, i manufatti sono uno scenario solo apparentemente concreto. In realtà il progetto artistico di Eugenio prevede proprio uno slittamento di significato delle operazioni che si vanno compiendo.
Alcuni esempi molto semplici mi sembra possano chiarire il mio pensiero. Il primo è l’imput emotivo dell’artista: quello che desidero fare per mettere a frutto un bene di mia proprietà diviene tout court la mia opera d’arte e ciò proprio in senso concettuale, duchampiano. Poi le relazioni sentimentali: vivo lontano dalla mia casa, ne ristrutturo un’altra, la condivido con amici, compagni di lavoro, la rendo comoda e bella, dunque un’operazione estetico-funzionale. Relaziono infine il mio fare individuale e collettivo con l’ambiente sia dal punto di vista naturale che sociale. Creo strutture compatibili con il luogo e la funzione. Un capannone in legno, costruito come dice Lucio, in shingle style. Eugenio dice per motivi tecnici, io penso che è perché è più bello e politicamente corretto. Infine offro in vendita il prodotto del mio lavoro e degli altri che collaborano, certo per ricavarne denaro necessario, ma anche per offrire oggetti, materie, che siano ‘confortevoli’ per i fruitori, gli utenti, il pubblico. Non è la descrizione della creazione di un lavoro artistico? PS: ho desiderio di confrontarmi con la realtà fisica delle opere per la mostra di Eugenio.
Aldo a Eugenio e Angela - In attesa dei Magi. Sono contento di ricevere di nuovo da Angela. Sto emergendo a fatica dai malanni. Angela è interessata a tre dei vari aspetti sollevati riguardo il lavoro di Eugenio e non sono sorpreso che i nostri sguardi siano in parte differenti. I ruoli sono sempre una gabbia soprattutto quando, come Angela sottolinea, sono ruoli istituzionali che costringono a logiche a volte aliene da noi e che occludono le soglie abituali attraverso le quali il nostro rapporto con il mondo è possibile oltre che sopportabile. Ma l’uso di tale logiche a volte è necessario in quanto permette che alcune cose esistano. Dovremmo essere menti sopraffine e saper prenderci gioco di ciò e saper avere un necessario distacco riuscendo ad ottenere gli amati scopi che ci prefiggiamo. O forse dovremmo imparare di più dagli artisti come Eugenio, appunto, nel percorrere gli eventi e i fatti con sguardo differente. Già parlai dell’appeso. E qui il secondo aspetto mi pare se non conseguente almeno strettamente correlato. Certamente Eugenio pone una distanza riflessiva tra sé e il fare e in questo opera un’indubbia astrazione; ma poi ciò che avviene, ed è quello che mi interessa, è che tale astrazione di senso dal mondano precipita nelle cose e nei fatti. E sono quelli che sono posti all’attenzione: una superficie cero-lignea, una foto di un’energia dispersa, le interviste ai lavoratori, un plastico di un qualcosa di esistente. Sono sempre più in crisi nella mia idea dell’astratto (sarà la recente rilettura
di Courbet e la plurima visione di Rothko?) tanto che penso che poi alla fine è su ciò che l’opera dona alla contemplazione che si pone il momento di contatto tra il pensiero e il suo immaginario, che ci permette di cogliere (in questo momento e per noi) la sua immensità o la sua limitatezza. E qui si arriva al paesaggio che l’opera va a definire. Certo in questo caso è Eugenio che sta con diligenza (come quando fa un plastico o come quando svolge il compito combinatorio dei quadratini) definendo il limite possibile per il nostro sguardo. E lo sta facendo partendo proprio dal proprio, dalla masseria, dalla strada, dal capannone, dal rumore delle macchine, dal vissuto degli operai, dalla vestizione dello sciabolatore e dall’attenzione dell’amica lettrice in auto. In modo che entro tali confini si possa esercitare uno sguardo circoscritto che possa intendere ciò che vede e che soprattutto si possa operare una visione con intenzionalità e attenzione particolari con presupposti condivisi. Molte cose da Eugenio sono tralasciate e non definite in questo contesto. Se ne ha coscienza andando a Rotondi e guardando i lavori. Ma è giusto che sia lui ad operare continuamente una scelta perché è lui in questo momento ad avere la possibilità e necessità a farlo. La totalkunstwerk non è per lui. E se si comprendono i limiti del paesaggio si capisce che è un buon luogo dove guardare e stare, se non ritrovarci. I turisti giapponesi hanno mostrato anche il contrario ma in quel caso non credo che l’arte ci possa entrare.
Aldo ad Angela e Eugenio – Ho saputo che Angela ha acceso il fuoco e visto i nuovi lavori. Sono curioso di confrontarmi con le sue impressioni. Leggevo ieri alcune cose sulla logica culturale nell’epoca del postmodernismo e riportavo alcune riflessioni al lavoro di Eugenio. Abbiamo discusso del fatto che ‘working class’ si debba intendere in un concetto allargato di insieme di ‘fatti lavorativi’ che riguardano il fare arte. Cosa sia il lavoro, per nostra esperienza e per studio, lo sappiamo: il lavoro produce merce, ma quali elementi le forniscono la possibilità di diventare arte al di là di una volontà primigenia dell’autore? Su suggerimento di Giacomo, vorrei presentare la sera della mostra un foglio con questo nostro dialogo incrociato. Che ne dite? Mi dispiace che Angela non possa essere a Roma la sera in tempo per l’inaugurazione: ritengo sia importante la sua presenza e il suo sguardo. La mattina dopo saremo insieme e brinderemo, con qualcosa di leggero naturalmente. Vorrei vedere la mostra insieme, tutti e tre; penso che sia importante incrociare dal vero le riflessioni.