Q
Io, l’Arte e la politica degli
anni
sessantotto
Il mio sessantotto dura un giorno. Primo liceo
scientifico, uno dei primi giorni di scuola.
Al richiamo della campanella la folla di ragazzi in
attesa non si muove. Nessuno entra, si forma un corteo. Dal quartiere collinare
del Vomero, per la prima volta forse, faccio esperienza delle vie di Montesanto
che scivolano ripidamente verso il centro città. Qualche studente distribuisce
dei foglietti di carta stampata alle persone che si fanno da parte al nostro
passaggio. “Nostro”.
Alla testa di quel corteo, che sarà il primo di
moltissimi, c’erano tra gli altri due ragazzoni dell’organizzazione neofascista
“giovane Italia” e sarà l’ultima volta che li vedrò senza sentirli “nemici”.
Non a caso ho virgolettato le due parole che
sintetizzano quell’inizio di esperienza che accomunava me a molti coetanei,
appartenenti a una generazione che non aveva avuto il tempo di formarsi prima e
che nell’esperienza del movimento ha compiuto la propria adolescenza e la
propria formazione culturale (approssimativa, per lo più).
Nostro non
connotava qualcosa che appartenesse ad una cerchia ristretta, alla famiglia,
alla classe agli amici.
Nemici non
erano i fantasmi delle guerre che
avevano insanguinato tutte le
generazioni precedenti e di cui facevamo esperienza attraverso la storia e la
profusione di film di guerra americani della nostra preistorica
televisione ad uno e poi a due canali.
A tre o quattro anni ero il miglior artista della mia
breve cerchia. Da questa escludo mio padre, che ha sempre dipinto per passione
ma che metterò a fuoco più tardi nella qualità di pittore, quando già ero capace
di distinguere la professione dal diletto. E’ di suo pugno la data, 1964,
scritta con penna biro sul rovescio del mio primo quadro ad olio. Ho 9 anni.
Sono solo quattro anni prima.
In effetti tutta
la storia del “68” si consuma per me e per “noi” in alcuni giri temporali
brevissimi.
All’epoca del mio primo corteo avevo tredici anni, ero
un artista, disegnavo, dipingevo, manipolavo plastilina e argilla, avevo preso
per la coda anche la moda dei gruppi musicali e suonavo la batteria in un
“complesso” insieme a mio fratello maggiore e a qualche suo compagno di scuola.
Mi era piaciuto pensare di fare il portiere di calcio e, come musicista, avevo
scelto il ruolo del batterista . Miei erano i ruoli che “restavano”
[1]. Da lì, forse, ho sviluppato un certo
costante senso di responsabilità
sull’insieme e uno sguardo un po’ esterno alle cose - il portiere, per gran
parte della partita, guarda dal di fuori il suo svolgimento, il batterista
accompagna con attenzione ma, tranne
che in stacchi e assoli, non è mai
protagonista diretto; come artista, prendo nota, osservo e descrivo, mi ispiro
alla vita degli altri.
Non ci interroghiamo sul ’68 con il calendario alla
mano; ciò non di meno la distinzione tra chi era già in piena coscienza
nell’anno che doveva essere solo quello delle olimpiadi di Città del Messico e
chi è venuto subito dopo, come me, credo resti importante.
Resta importante perché questa circostanza ha radicato
in noi ultimi una certa perenne sensazione di essere in attesa di qualcosa, di
approvazione, di coinvolgimento, il ruolo di chi attende il proprio momento
mentre fuori si gira quello degli altri, dei fratelli maggiori.
Insomma, la sensazione di arrivare
sempre quando la tavola è già apparecchiata.
Questa situazione produce attivismo, molto spinto. Per
senso di inadeguatezza; necessità di essere all’altezza nel campo degli altri
e,disperata, di creare il proprio.
Sono riuscito a recuperare una visione artistica degli
anni sessantotto (uso
quest’espediente paragrammaticale per dare all’oggetto della nostra discussione
la dimensione temporale che gli spetta) alla luce di ciò che era rimasto sulla
scena qualche tempo dopo. E sono certo di avere così una visione sommaria e poco
“colta”. Per questo preferisco scrivere di come uno come me, artista in fasce
fino allo scoccare del richiamo della militanza politica e poi di nuovo artista
allo scadere del tempo concessoci per fare la rivoluzione, poteva vederla senza
alcuna pretesa di farne la “storia”.
D’altronde, a dispetto della sua prevalente componente
intellettuale, il ’68 è fortemente
anti culturale in molte sue manifestazioni. La contestazione della prima della
scala del 7 dicembre 1968 sarà molto più simpatica al movimento della decisione
di boicottare la biennale del cinema da parte dei giovani registi che rifiutano
premi e competizione.
Signor Rossi[2]
visto con gli occhi di un ragazzo proveniente da esperienze cattoliche o
comuniste, infervorato nella
scoperta (- riscoperta) vocazione rivoluzionaria, nella difesa dei più deboli,
non apparirà quell’opera rilevante che indubitabilmente ci appare ora, anzi, gli
darà ai nervi come un’odiosa manipolazione di un soggetto debole, come un
ulteriore episodio di sfruttamento sociale.
Alla
sedicente avanguardia politica il mondo
dell’arte appariva opaco, anzi, trasparente. E’ proprio del ‘68 la
famosa mostra “arte povera + azioni povere”
degli arsenali di Amalfi. Ed è
evidente
come quegli anni di dibattito artistico vedano
con l’Arte Povera uno dei movimenti più
rilevanti della seconda metà del XX secolo.
Diversi tra gli artisti di quel
movimento, e comunque di quella generazione, si
sentirono vicini alle avanguardie politiche e
spesso contribuivano
generosamente,
per quello che potevano, anche al loro
finanziamento. Ma il
sessantotto come sentiva la presenza di
questi compagni di strada? Gli artisti sono
costruttori di “immagini” ma quelle immagini
sono funzionali alla rivoluzione? I poeti servono alla
rivoluzione? L’arte dice di sé una
verità incomprensibile e inutilizzabile
per le necessità di immediatezza
comunicativa della politica. Anche nelle sue
forme più apparentemente semplici ,l’arte cerca
in direzioni verso
cui la politica, anche quella rivoluzionaria,
non è in grado di seguirla. Sono abituato a dire
agli artisti più giovani
che la
trappola in cui tutti cadono all’inizio del
proprio percorso è quella di credere nella
vitalità di quello che appare attuale.
Tutte le volte che un movimento, un certo
modo di fare arte occupa media, musei e gallerie
di mezzo mondo, crediamo di assistere in presa
diretta alla nascita di qualcosa, ma ci
sbagliamo. Quasi sempre i movimenti costruiscono
nell’oscurità. Crescono al riparo di altri
successi, dicono il meglio e il nuovo prima che
ce ne si accorga. Al momento che il mondo - e il
mercato - sono maturi per il loro lancio hanno
già detto tutto, hanno perso la loro carica
“sovversiva” , non
possono che invecchiare. I tempi della politica,
possono apparire gli stessi: i movimenti
politici
si preparano attraverso un lavoro sotterraneo di
lunga durata poi d’improvviso avviene qualcosa,
si rompe una diga e il movimento dilaga. Vero,
ma la qualità del dilagare è completamente
diversa. Nel dilagare il movimento acquisisce
forza e moltiplica soggetti, richiama e
coinvolge i più intelligenti, li fa crescere e
si rimodella su loro. Il lavoro di preparazione,
durato anni, si salda in continuità con
l’affiorato, mettendo i piedi per terra, prova
la sua efficacia e
si
rimodella; si fa cinico e tradendo, spesso, la
“dottrina” politica che lo ha creato, dà il
meglio di sé nel declinarsi socialmente. Perché
quello è il suo destino. Prendiamo il femminismo, non potremmo immaginare il movimento delle donne, che nasce ben prima ma che in quegli anni viene alla luce con un’energia prima impensabile, senza pensare al ’75, alla rottura separatista e a quanto questa abbia inciso sul destino dell’intero movimento rivoluzionario. La verità della politica, pur se preparata da lunghe incubazioni, è simultanea alla sua manifestazione. L’arte non obbedisce alle stesse regole, perché la realtà nella quale agisce è un dato esterno, pur se condizionante, ma non è l’oggetto centrale della sua indagine. I movimenti sono solo la modalità sociale con la quale gli artisti possono spiccare i primi passi, ma poi è alle loro individualità che spetta mantenere promesse, la vitalità, la capacità simultanea di verità, non è del collettivo artistico ma dell’individuo mentre nel campo della politica la vitalità è nel collettivo e l’individuo è un accidente funzionale alla logica collettiva. |
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J.Beyus, la rivoluzione siamo noi, 1971 |
Così anche se molti artisti si sentivano attratti dai movimenti politici rivoluzionari pochissimi punti di contatto reale si creavano. Solo uno di questi punti di contatto fu organico (Lotta Continua e la galleria Area di Firenze, 1974 – 1976) mentre prevalentemente le organizzazioni politiche cercavano di mettere a profitto la generosità degli artisti impiantando un mercato parallelo di opere d’arte allo scopo di finanziare le loro imprese politico – editoriali. Mentre in generale per
la storia del costume(del modo di essere della
persone), dei rapporti interpersonali, delle
dinamiche familiari ecc. il ’68 permane uno
spartiacque ancora importante (e se lo è in
negativo per alcuni esponenti della nuova
politica europea la cosa non fa altro che
confermarsi), altra cronologia segue l’arte. La musica, per esempio
aveva compiuto le sue rivoluzioni parecchi anni
prima e le marcette militaresche dei movimenti
non attingevano a quella rivoluzione recente e a
portata di mano, semplicemente perché la
rivoluzione politica ha bisogno di linguaggi di
bassa qualità. Tutto deve essere semplice da
capire, da ricordare, da cantare, da riferire.
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E. Giliberti - 22 anni, operaio, 25 anni, gallerista |
Così, se si fosse fatto un sondaggio tra noi militanti
con domande tipo: chi sono i tre artisti contemporanei che ti vengono in mente?
Si sarebbe risposto: Guttuso, De Chirico (si ma è “fascio”), Dalì,
tutti oltre i 60 anni.
C’era una indubbia superiorità “mediatica”,
dell’iconoclastia più o meno culturalmente
luddista
del movimento negli
anni
sessantotto.
Superiorità conseguita compiutamente sullo stesso movimento da due
sue espressioni secondarie verso la
fine della sua parabola: le formazioni terroriste e il partito radicale.
Manifestazioni, scontri di piazza, cortei interni nelle fabbriche, richiedevano
riflettori puntati che oscuravano altri angoli meno chiassosi. Così più tardi
furono le azioni di avanguardia omicida
dei terroristi e quelle di
avanguardia civile, ma altrettanto
solitarie, dei radicali ad esaurire
le pile dei megafoni.
Una grande sproporzione tra le due anime del tempo è
data dalla capacità di produrre eroi. Fosse individuale o collettivo, il
sessantotto ha vissuto nel mito
dell’eroe come l’arte, ma l’artista è l’eroe impossibile da imitare. La sua
individualità è avversaria dell’emulazione e rende problematica
l’identificazione che invece l’eroe politico consente. L’emulazione, nella sfera
dell’arte, è infatti considerata un disvalore, mentre nel campo dei
comportamenti sociali positivi una
virtù.
E’ la capacità quindi di
produrre eroi sociali, eroi massa
come Soriano Ceccanti[3]
a marcare un confine.
L’arte non è mai democratica, qualsiasi cosa pensi del
mondo l’artista che la pratichi. Tutt’al più è sciamanica[4].
La radicalizzazione dell’arte degli anni sessanta[5]
prepara insieme a molti altri fenomeni
gli anni sessantotto, ma
quegli anni non sembrano produrre da noi fenomeni
nuovi duraturi[6]
fino a che, al crepuscolo, appare la stella della transavanguardia. Anni
di transizione artistica con la sospensione, nella generazione protagonista,
della questione dell’arte.
Ogni generalizzazione è un’idiozia, ma basta scorrere i
nomi di una recente mostra di Luciano Caramel sull’arte degli anni ’70 per
notare che tra i nomi noti quasi
tutti sono artisti che hanno cominciato la loro attività già nei primi anni ’60
o ancora prima. Non è un giudizio di valore, ma è un’osservazione. In Italia
niente nasce in quegli anni che abbia il peso o almeno la persistenza di
Art & Language, o
Support s/Surfaces, due poetiche opposte ma egualmente radicate negli
anni settanta europei. Mancano da noi figure della taglia della francese Gina
Pane, degli americani Vito Acconci e Gordon Matta Clark.
Forse da noi il sessantotto è stato troppo lungo e
ingombrante, l’impegno politico ha compresso l’energia creativa di un’intera
generazione. Negli anni settanta sono presenti sulla scena artistica tutte le
figure significative del decennio precedente. Si sviluppano e radicalizzano
linguaggi. Ma si creano poche cose ex novo[7]
e la generazione protagonista non si accorge di niente, non è coinvolta.
Beuys nel
‘75 confeziona per Lotta Continua le bottiglie per il the di Bruno Corà:
curioso, ma il suo manifesto “la rivoluzione siamo noi” può essere tutt’ al più
equivocato se non rifiutato.
L’unica forma ammessa è l’immagine utile. Nel suo
piccolo il movimento del sessantotto riproduce l’autodafé che i regimi
totalitari allestiscono per l’avanguardia o l’arte degenerata.
[8]
Quello che dal ’76 in avanti accadrà con l’ascesa della
transavanguardia potrebbe essere letta a questo punto come l’unica risposta
possibile all’oppressione politica. Insomma l’unica espressione persistente
dell’arte italiana che ha le sue
radici negli anni del sessantotto. D’altronde la grande installazione di Enrico
Baj dedicata alla morte dell’anarchico Pinelli. Una delle maggiori opere che si
confronta con la realtà del tempo è di un artista nato negli anni ’20.
E nel 1981 siamo anni luce più tardi, una vecchia
linotype di Lotta Continua viene
trasformata in opera d’arte dallo stesso Beuys in una performance in palazzo
Braschi a Roma. Sembra un’allegoria della trasformazione che la fine delle
speranze sta producendo nelle menti dei protagonisti del lungo anno del
sessantotto (ormai quasi due intere generazioni). I volti che si riconoscono
nelle memorabili fotografie di Tano D’Amico fanno un ritratto di un momento
fuggevole in cui le due parti in movimento si incrociano, grazie a Joseph Beuys
e a Checco Zotti, alla persistenza dell’arte e al ritiro della rivoluzione.
Ora siamo tutti a caccia di noi stessi, ricacciati
indietro da un mondo che non ne vuol sapere di essere salvato.
Sono gli anni
ottanta ragazzi.
la rivoluzione siamo noi, Joseph Beuys, 1972
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E gli anni ottanta sono una ventata di aria nuova nelle
nostre cantine piene di fumo (di Marlboro a tre pacchetti mille lire). A
dispetto del preteso “impoverimento” della cultura artistica piegata dal
mercato, mi ricordo di una spinta fenomenale ad appropriarsi di tutto quanto
assimilabile all’idea di cultura, tutto quanto era liquidato come
”sovrastrutturale” fino a un momento prima. Così teatri d’avanguardia, gallerie,
musei, conobbero sale piane e file agli ingressi. Si apriva la strada a un
consumo di massa della cultura di dimensioni che credo non si erano mai viste
prima. Non vorrei fare analisi grossolane, ma ricordo le facce. Eravamo noi, che
siamo anche la generazione del baby boom e della scuola di massa. Dal chiasso al
silenzio. Dalla piazza al museo, ancora con la voce rauca dagli slogan esagerati
che qualcuno aveva preso sul serio.
Mi è capitato già una volta di dire e di litigare a
proposito della valutazione del dopo.
Atterriti dalla potenza con cui l’arte della
transavanguardia sembrò far piazza pulita di ideologismi e concettualismi che
apparivano d’improvviso sterili,
molti rimasero appiattiti in attesa che la bufera passasse, che il dibattito
sull’arte riprendesse forme domestiche praticabili al riparo dai turbamenti .
Era del tutto nuovo (lo ricorderà Lucianio Fabro nel
convegno “rendez-vous des amis”, al museo Pecci nel 1998) che genitori
accompagnassero l’iscrizione dei propri figli all’accademia di Brera con la
speranza di una luminosa e lucrosa carriera. Una volta l’iscrizione testarda di
un giovane borghese all’accademia era guardata dalla famiglia con notevole
apprensione come una rinuncia al mondo, quasi come l’avviamento al noviziato.
Non avevo ancora mai esposto, nel 1983, mi guardavo
intorno mentre dipingevo i miei primi quadri (avevo deciso che 200 fosse la
soglia minima per considerarmi di nuovo “pittore”). Fui colpito dalla frase
buttata lì da Michele Bonuomo
[9]a proposito del problema di vendere opere:
–il problema non è vendere, tutto si vende…., il problema è
cosa vendere-. A parte l’angoscia
nella quale mi immergeva il pensiero di dovere ancora superare l’arcigno esame
sul cosa, mi si aprì una visione
“bulimica” del mercato dell’arte dove qualsiasi cosa sarebbe stata venduta se
offerta. Se era così, allora, bisognava entrare nel campionario di chi aveva
potere di offrire.
Insieme a pochi coetanei e molti “barbari”, ragazzi
freschi di accademia cui pochi anni di differenza conferivano ai miei occhi
quella condizione intellettuale di tabula rasa che in fondo invidiavo,
cercai di intraprendere la dura strada
che portava al nostro nuovo avvenire.
Formammo un gruppo senza troppi contenuti teorici,
preferivamo fingere di fare il fenomeno improvviso e inesplicabile, tramite
amici contattammo Achille Bonito Oliva.
Cogliemmo la reazione infastidita e invidiosa
dell’ambiente artistico che coltivava un’avversione violenta e biliosa nei
confronti del successo, vero, della transavanguardia e in quello esorcizzato di
ogni nuovo artista che si presentava su una scena che è sembrata sempre troppo
affollata, il nostro, per esempio.
Forse per la prima volta gruppi di artisti si formavano
esclusivamente nel miraggio della costruzione di una strategia di “successo”. Le
nostre orecchie sono ridiventate caste, ma hanno sentito espressioni che oggi si
immaginerebbe più facilmente ascoltare in una sala scommesse o in una
conventicola di furbi affaristi.
Si criticavano come espressioni anacronistiche e prive
di ogni valore tutte le forme di creazione artistica inutilizzabili dal sistema
che venivano schernite col termine “concettuale”, per qualche anno sinonimo di
“ritardatario”. Il valore dell’opera si spogliava di ogni trucco o raggiro
intellettuale coincidendo pienamente con la sua capacità immediata di suscitare
un prezzo di mercato.
Era una maniera di esorcizzare la paura di non essere
all’altezza, di non farcela in un mondo che ti sbatteva in faccia spietatamente
la sua ricchezza e i suoi arbitri, ormai nuovi modelli universali.
Cercavamo di specchiarci negli altri e di riconoscere
ancora una comunità dove invece eravamo soli, indeboliti dalla mancanza di un
campo intellettuale originale e subalterni agli altri soggetti del sistema
dell’arte. L’artista era nudo. E povero.
L’arte nasce dove può e dove deve, in qualsiasi
condizione. Si adatta ai contesti. E mentre scampoli di nuova scuola romana
esaurivano ogni spazio possibile per la poetica della transavanguardia qua e là
nascevano ricerche che richiamandosi ad altre paternità costruivano scenari
futuri.
Il 1989
intanto stroncava l’illusione di immortalità del post-modernismo criticandone la
stessa nominazione e restituendo il significato temporale agli aggettivi
“moderno” e “contemporaneo”.
Nello scompiglio seguito alla grande crisi, che sembrò
letteralmente ingoiare interi pezzi del sistema dell’arte così come si era
disegnato negli anni ottanta, si è
aperto per un certo tempo uno spazio nuovo, di azione autonoma e alternativa
degli artisti. Pratiche non commerciali, come la performance
furono adottate dai più giovani senza soggezione, alcune volte grazie a
una disinibente dose di ignoranza, gli artisti cominciarono a vedersi tra loro,
nacquero diverse esperienze interessanti, come la breve avventura napoletana di
Pompeiorama (primo progetto espositivo
pubblico affidato ad artisti in Italia), la rivista romana Opening, la galleria
di Via Farini (Milano)e, soprattutto, “Progetto Oreste” tentativo di ricostruire
un tessuto pensante tra gli artisti europei attraverso una serie di iniziative
comunitarie, vere e proprie incubatrici per una nuova generazione.
Progetto Oreste finì alla Biennale di Venezia del 1999.
Finì.
La riorganizzazione del mercato, su una base
internazionale molto più ampia (pensiamo all’ingresso in scena
prima degli artisti dell’est europeo, poi ai cinesi - sempre la biennale
del 1999 - ) richiama all’ordine il sistema e riporta gli artisti alla loro
solitudine (anche se quasi per compensazione in quegli anni si formeranno molti
“duo” artistici di discreto successo: Bianco Valente, Botto e Bruno, Cuoghi e
Corsello, Perino e Vele ecc.). E’ storia
dei nostri giorni e fa parte della riorganizzazione generale dei sistema
dell’arte internazionale, la fioritura di nuove strutture museali dedicate
all’arte contemporanea. Finalmente anche molte città italiane se ne sono dotate.
Curiosamente sembra essere l’unico campo nel quale Napoli dà punti a Milano:
Madre, Pan, l’attività espositiva del polo museale a Capodimonte e Sant’Elmo,
troppa grazia… Chi l’avrebbe immaginato qualche anno fa? La base di massa
dell’arte cresce. E anche se in generale si disegna come una base consumatrice
più che partecipe, esprime diverse
nuove figure di galleristi e collezionisti molto informati e molto ambiziosi.
Sono passati veramente molti anni, anni luce, dagli
anni sessantotto, e un giovane
artista che oggi cerca la propria strada (perché al di là di ogni filosofia,
alla base di tutto c’è sempre un talento individuale che cerca di affermare la
sua presenza) sembra avere maggiori possibilità. Il sistema è apparentemente più
aperto. Tutti alla ricerca del nuovo Van Gogh da sottrarre al suo destino di
disperazione e follia[10]
ma anche tutti alla ricerca di nuovi prodotti con cui nutrire un mercato
insaziabile di novità/curiosità, certe volte effimere. Il mercato dona
“certezze”solo nei piani alti (dove la scrematura del primo mercato crea il “brand”
artistico che poi filtra nell’informazione popolare con i suoi contenuti
“scandalosi” e prezzi esorbitanti) ma tendenzialmente moltiplica le
strutture intermedie di promozione[11]..
Conseguenza o condizione compresente all’assetto
descritto del sistema è
il fenomeno dell’atomizzazione, la dispersione dell’artista nel tessuto
sociale che oggi appare capace di riconoscere e ”metabolizzare” i suoi segni, di
renderli “normali”, funzionali alla società che comincia ad avere un
atteggiamento “accogliente”.
Ho assistito recentemente, davanti a una vetrina romana
dove artisti sono chiamati a turno a mostrare opere da offrire alla visione
rapida dei passanti, alla dichiarazione del proposito di avviare rapporti con
l’amministrazione pubblica per favorire la realizzazione di opere che
riqualifichino pezzi di architettura urbana non risolti. Il “lavoro sporco” cui
ci ha abituato la nostra metropolitana dell’arte con alterni risultati.
Al di là di
snobismi facili che possono suscitare, per esempio,
le povere opere abbandonate nella
stazione squallida del centro direzionale di Napoli, abbiamo sperato
intensamente che un fenomeno del genere si verificasse. Che la società desse
finalmente prova di considerazione sociale all’arte e non sappiamo quanto questa
nuova normalità sia messa in pericolo dai rivolgimenti politici in atto (e della
svolta culturale sanfedista che potrebbe conseguirne).
Critichiamo il senso di vuoto che in fondo lascia ogni
fenomeno di normalizzazione e contemporaneamente
ci appare inaccettabile che esso si interrompa. Perché l’arte e i ragazzi
non dispongono oggi della speranza di cambiare il mondo.
[1] Rubo
questa immagine a Tano D’Amico che così racconta
come sia diventato il fotografo di Lotta
Continua – Tano è lento, lui farà le fotografie….
[2] De
Dominicis mostra alla biennale di Venezia una
persona affetta da sindrome di Down come opera
d’arte
[3] A pochi
giorni di distanza dalla contestazione alla
prima de La Scala è la volta di Viareggio. A “La
Bussola” di Viareggio per il veglione di
capodanno 1968 è previsto un concerto con Fred
Bongusto e Shirley Bassey. Ci sono scontri con
la polizia che spara. Soriano Ceccanti ne verrà
colpito e resterà paralizzato, uno dei primi
eroi del movimento del ’68.
[4]
Tutto quel noi,
quel sacrificio della propria individualità a
vantaggio della collettività, quello spirito di
corpo, incanala per scopi diversi e più lontani
dall’interesse e dalle pulsioni assolute
dell’individuo sue energie. Ma è una necessità
di sopravvivenza degli individui e diventa un
abito culturale, una modalità di comportamento
che non cancella il fondo del proprio
egocentrismo.
Così il sessantotto collettivo e generoso
si nutre alla stessa fonte di interessi primari
e pulsioni della società selettiva e ingiusta
che combatte riproducendo nei suoi piccoli
sistemi di potere le stesse dinamiche del
Potere.
[5] Tornando
al mondo mi vengono in mente tre presenze
certamente radicate in quegli anni: Gina Pane,
Vito Acconci, Gordon Matta Clark. Li abbiamo
visti, allora. Amati, dopo.
[6]
Soprattutto nella seconda metà degli anni
settanta si manifestano diverse esperienze di
“arte sociale” che restano, almeno in Italia,
fenomeni circoscritti al tempo che li ha
imprigionati rifiutandosi spesso di trasmetterne
anche le informazioni. Trovandomi a palarne
varie volte in questo periodo mi accorgo di
quanti in quegli anni siano stati coinvolti in
misconosciuti progetti. Mi dispiace non poter
condividere la vividezza di quei ricordi, ma lì
è il punto. Se il
movimento
è il fatto che domina
il tempo, è alla luce di esso che guardo.
Ed è quel fatto che non è risuscito o non ha
voluto e potuto dare slancio alle esperienze che
esso indubbiamente suscitava.
[7] Discorso
a parte riguarda la video arte, Bill Viola, per
esempio, nei primi ’70 è in Italia, collabora
con Maria Gloria Bicocchi alla creazione del
primo centro di diffusione della nuova arte
del “video tape”. Sta maturando una sua
poetica che esploderà nel 1980 con una grande
retrospettiva al MOMA. Così Fabrizio Plessi,
pioniere in Italia della nuova arte, resterà
personaggio isolato nella sua dedizione al nuovo
mezzo fino alle generazioni
più recenti
[8] Ripeto
che la mia età e il mio ingresso ritardato nel
mondo dell’arte mi obbligano a non andare per il
sottile. E nessuno se la prenda con la mia
ignoranza, essendo essa dichiarata. Mi limito ad
osservare l’osservabile da questo dichiarato
punto di osservazione dove presenze
universalmente considerate rilevanti come quella
di Peppe Desiato, non ribaltano una sensazione
generale di debolezza della creazione artistica
degli
anni sessantotto.
[9]
Corteggiatissimo critico d’Arte e giornalista de
“Il Mattino” negli anni ’80, molto vicino al
gallerista Lucio Amelio.
[10] Prendo
questa affermazione dal colloquio tra Warhol e
Schnabel nel film Basquiat, di Julian Schnabel.
[11] Ognuno
poi vede le cose alla luce della propria
esperienza e sensibilità, non c’è mai abbastanza
spazio per le ambizioni di tutti e quegli
artisti giovani che oggi trovano uno spazio di
lavoro e visibilità molto maggiori di un tempo
sono sempre un piccolo numero rispetto alla
folla degli aspiranti. Non sono finite le pene