Aldo Iori
<<<< L’esperienza di ognuno e il pensiero filosofico e scientifico, dalla fisica all’economia politica, definiscono cosa sia il lavoro e ciò che produce, sia esso spostamento, calore, valori, opere, sapere o qualsivoglia prodotto. Ormai le ideologie storiche, anche politiche, sono considerate, nell’attuale situazione, quasi superate e travalicate da altre, dominanti, che pongono sempre più in primo piano il lavoro non in una condizione di produzione ma meramente di consumo; la merce e il suo controvalore sono visti come elementi più che mai determinanti per ogni ottica e speculazione anche teorica. I nuovi mezzi comunicativi e riproduttivi modificano la percezione, invertono la prospettiva e il nostro rapporto con il reale; pongono lo sguardo nell’inedita condizione di dover determinare continuamente la distanza critica tra virtualità e realtà. La condizione parossistica induce al collasso e i termini divengono pericolosamente intercambiabili: seconde vite virtuali nelle quali contemplare la realtà considerata di per sé insufficiente e nelle quali perdere il senso della finzione. Lo Stregatto ci sorride nello specchio di Alice. L’osservatore contemporaneo è cosciente delle condizioni, differenti da ieri, che collocano l’opera in una complessità nella quale la visione è continuamente indotta a sguardi deviati e caleidoscopici. Di fronte all’opera, deve come sempre riconoscere l’icona e riuscire a collocarla nel paesaggio di appartenenza e poter raggiungere ciò che essa dona.
In questo panorama generale l’artista è chiamato a elaborare forme e nuove immagini del mondo trasformando la materia in oro e il visibile in invisibile. Si pone quindi la questione di come l’opera si riscatti in una condizione in cui è ostaggio di una cultura eletta essa stessa a sistema di merce.
Molti artisti, ed Eugenio Giliberti tra loro, ci propongono opere nelle quali il pensiero che le sostiene fissa l’attenzione sul momento generativo e sul momento fattuale che ne permette l’apparire in un particolare rapporto che si instaura con il reale.
L’operare di Eugenio Giliberti appare particolarmente interessante: l’artista interagisce con le questioni profonde del processo di trasformazione che oggi l’arte induce nel reale e della sua collocazione nel contesto ideologico in atto. Il paesaggio che definisce mette in risalto un movimento lento e inesorabile dove ancora è il pensiero che diviene la forza agente determinante del fatto. E questo come sempre al di là di ogni possibile metafora poiché la convinzione di una posizione etica da salvaguardare si relaziona sempre con la valenza estetica dell’opera.
Il progetto di Rotondi, il restauro di una masseria di famiglia e la costruzione, apertura e messa in produzione di un laboratorio di lavorazione di legno, coinvolge complessivamente l’artista che se ne occupa, guardandolo, come lavoro d’arte. Seppur gli ambiti di azione siano separati - fisicamente una strada divide la masseria/studio dal capannone/laboratorio - è nel momento del lavoro, attraverso il suo progettare e operare, che si coniugano e divengono poli energetici che conducono all’opera. Egli non vuole introdurre valenze neocomportamentali o giungere alla definizione dell’opera totale, né nutre un interesse antropologico per ciò che estrapola dal reale. Il suo intervento è attuato con complessità e interezza e contemporaneamente con l’autorevolezza storica dell’artista.
Fin dalla metà degli anni ottanta Eugenio Giliberti definisce un proprio e autonomo percorso logico/estetico: le opere progressivamente abbandonano le giovanili pulsioni gestuali e focalizzano le questioni poste dai maestri di area concettuale della neo avanguardia pur tenendo presente l’eredità ideale della pittura di più alta fattura di cui Napoli è indubbiamente stata importante luogo testimoniale. Le opere del periodo delle superfici monocromatiche e delle combinazioni dei colori, sembrano apparentemente abdicare a una rappresentazione del reale. Ne mantengono un interessante riverbero – non solo fisico - nell’uso di materiali cerosi o ceramici e soprattutto nell’introduzione, nell’economia generale del procedimento, dell’errore e dell’involontario calembour visivo-linguistico. I lavori cromatico-combinatori ciò nondimeno forniscono prova, estenuante e panica, delle possibilità di un reale di dilatarsi verso l’infinito: 25.200, 43.749, 680.400 quadratini colorati. Contemporaneamente la riflessione sul ‘fare’ del lavoro conduce alle proposte di una parete di resistenze elettriche e alle superfici estroflesse presentate negli imballi da viaggio.
Il rapporto con il reale si riannoda compiutamente negli anni novanta in opere tridimensionali, negli ‘oggetti platonici’, sculture realizzate in pittura encaustica. In esse il riferimento a una forma, una sedia, un vaso, un tappeto, rende testimonianza di un riferimento al reale, inteso in senso concettuale, non semplice realtà. Parimenti la presentazione di grandi insetti, o la loro riproduzione infinita sulle pareti e sulle volte, non sembra mai essere frutto di una visionarietà fantastica ma di un intenso rapporto con l’intorno, ambiente dell’arte o situazione politica che sia, nel quale la metafora visiva e linguistica si viene a collocare e a essere superata. Anche il progetto leopardiano in itinere trae origine dal suo vivere in vico Pero a Napoli e dal suo quotidiano contatto con la città, con la scrittura e la memoria di una storia anch’essa ‘prossima’ al fare artistico contemporaneo. Le sue opere sempre più si fanno carico di una presenza del reale, mai indifferente, posta nel fluire di momenti relazionali. Questo appare oggi più evidente nella libertà narrativa del disegno o delle candide maquette in plastilina e nell’uso di sistemi riproduttivi fotografici e video.
Il reale osservato subisce sempre nella trasformazione in opera un cambiamento, anche minimo, di scala. La condizione dimensionale, quale elemento critico del lavoro, è presente fin dagli ingrandimenti di alcuni elementi specifici del quotidiano, nella proliferazione delle zanzare poste a decorazione a quinconce di grandi ambienti, o nelle proposte in scala di castelli, conventi, caseggiati o anche figure umane. Oggi si trova nella riduzione in video di esperienze di un vissuto, inteso come valore aggiunto che l’atto artistico recupera, o nella riduzione ‘humourale’ della propria stanza che diviene luogo ipotetico di gioco infantile o, ancora, nella grande scodella in cera e pigmento appesa alla parete.
Le opere esposte danno testimonianza di una condizione determinata in gran parte dall’appartenenza a un contesto in cui l’elemento fulcro/cerniera è l’artista stesso. Le esperienze realizzate nel luogo scelto a residenza lavorativa, i disegni e le foto, i racconti dei lavoranti, lo spaccare la legna e il suo stesso abbandono formale nell’aia, l’astrarsi nella lettura in auto dell’amica artista, e così via, divengono dati germinativi per opere che segnano dei luoghi da cui è possibile traguardare il nuovo paesaggio che si va a comporre davanti all’osservatore.
La stessa storia atletica del gallerista Guidi, richiamata in un video e in una pittura con un ‘duello cromatico’, diviene emblematica di un passaggio attuato da un eroe, nel quale la forma, e quindi l’icona da essa generata, si ridefinisce in dettagli del fare nei quali non è più possibile, né determinante, riconoscere i modelli, oramai sfumati nella distanza.
La mostra è introdotta da un annuncio dell’evento che presenta due duellanti baffuti che si affrontano con postura demodé sovrastati dalla scritta ‘working class’. Esso invita alla visione della mostra ma anche a porsi ‘in guardia’, in condizione di attenzione critica. L’opera è prossima a noi, in una presenza possibile nel reale dove nasce, cresce e si sviluppa determinando un proprio spazio-tempo. L’artista ci invita a riconoscerla nel suo apparire sempre in nuove e stupefacenti formulazioni.