testo scritto in occasione della mostra personale "il senso di Walden" Roma 2010, Galleria Giacomo Guidi, pubblicato nel catalogo annuale della galleria
Eugenio Giliberti: il senso di Walden
Bruno Corà
Premessa
Sono ormai numerose le ragioni per le quali si può affermare che l’opera di Eugenio Giliberti sia entrata in una fase di qualificazione distintiva di concezioni, metodi, processi e sistemi di elaborazione che sono suoi propri e di nessun altro artista pur appartenente alla sua generazione. E ciò perché egli, con una decisione non priva di vigore nel superamento di sensibili difficoltà, ha impresso alla sua azione, da qualche anno, una motivazione dinamica di fortissimo trascinamento risolutivo di ogni eventuale perplessità che si fosse interposta tra il momento teorico-progettuale e lo stato compiuto del proprio lavoro in forma d’arte. Tale spinta infatti è sopraggiunta allorché – in un momento di oggettivo disagio, dovuto alla chiusura in successione dei suoi tre precedenti studi a Napoli, Giliberti ha pensato di individuare un nuovo studio tra Napoli e Cervinara, nei pressi di Rotondi, dove egli si era a più riprese occupato di alcune selve di castagno e di una masseria di proprietà familiare in cui ha cominciato a fantasticare sulla possibilità di trasferirvi lo studio. In quel territorio, già abitato anche da altri artisti, Giliberti decide di erigere un paio di strutture per il deposito e la lavorazione del legname, munendole di macchinari e coinvolgendo in una piccola impresa industriale anche un gruppo di amici che, da allora, condividono il suo progetto produttivo. “Selve del Balzo” – dal cognome materno – diviene perciò l’impresa in cui attività produttiva di trasformazione del legname proveniente da alberi di castagno, ma anche di noce, melo, robinia, platano e pioppo, si intreccia indissolubilmente ormai con il lavoro estetico e artistico, finalizzato alla creazione delle sue nuove opere.
Le fasi di questa nuova organizzazione esistenziale e artistica sono più articolate e complesse, ma basti sapere che con essa Giliberti giunge a saldare alcuni obiettivi di pianificazione di vita pratica con aspetti costanti della sua tensione etica e intellettuale e di vocazione artistica. In tal senso, nella considerazione di una svolta come quella compiuta in questi ultimi anni, non è privo di senso ricordare come nel pensiero e nel lavoro di Giliberti abbia sempre trovato posto un’esigenza di proiezione sociale dell’azione creatrice. Di ciò si avrà modo di evocare, nel corso di questa riflessione critica, alcuni momenti significativi, come l’esperienza del progetto Terminale Marianella, quella di Pompeiorama e quella di Memoria Ribelle, quest’ultima, peraltro, condivisa con chi scrive. Di queste diverse iniziative, in cui sono sempre partecipi anche altri protagonisti, ciascuna a suo modo, dà segni di una ulteriore ragione animatrice del lavoro a carattere collaborativo di Giliberti . Ho avuto modo di affermare già in altre circostanze, che vicende di carattere personale si sono dissolte in un prassi artistica che ha consentito a Giliberti di compiere un’esperienza al contempo estetica e marcatamente sociale.
E’ in tal senso che in questa mostra a Roma si è voluto, di comune accordo, tirare in ballo il Thoreau[i] del Walden, ovvero la vita nei boschi. Analogamente allo scrittore e filosofo statunitense, Giliberti, infatti, ha avviato un’esperienza di riflessione sul rapporto con la natura e il territorio silvano, in un luogo aspro e suggestivo dell’Italia meridionale, carico di risvolti non solo produttivo-ecologici ma anche di operosità trasformatrice e fondatrice di realtà vitali che sfociano nell’operare artistico e negli aspetti poetici ad esso connessi.
Insieme a datate conquiste, sono questi nuovi fatti emersi dall’avventura ormai avviata attorno alla masseria Varco di Rotondi, che lo impegna in una contiguità impensata con uomini e luoghi a lui poco noti e di cui alcuni resoconti video, già esibiti nella mostra del 2008 presso la stessa galleria Guidi, hanno dato ampio conto, che inducono a parlare di una nuova incisiva fase, preludio alla maturazione linguistica nel percorso di Giliberti e saldamente ancorata a una nuova dinamo ideale che garantisce all’opera ulteriori sviluppi.
Estraneità estetica e origine del nuovo
Nel capitolo “Dove vivevo e perché” del Walden, Thoreau afferma «Andai nei boschi …. per affrontare solo i fatti essenziali della vita».[ii] Queste poche parole estratte dal denso resoconto che lo scrittore americano ha compilato più di un secolo e mezzo fa, evocano un momento dirimente della sua esistenza, nel quale decise di prendere in mano il proprio destino, facendo una scelta che avrebbe influito sul resto dei suoi giorni. Al di là di talune analogie con il gesto di Thoreau, rinvenibili nella decisione di Giliberti di allontanarsi dalla sua città, Napoli, di compiere l’esperienza di rimettere in sesto la masseria Varco nel territorio di Rotondi e con essa di dar vita al progetto “Selve del Balzo”, ciò che si deve obiettivamente comprendere è che la decisione - pur non volendola immaginare come ultimativa nel percorso di Giliberti - appare senza dubbio carica di una determinazione simbolica a valenza compendiaria che recupera e ripromette, con nuova energia e ampiezza concettuale, l’intero suo iter artistico sperimentale. Ciò poiché, anche per Giliberti, sembrano giunti gli anni “per affrontare solo i fatti essenziali della vita”. Peraltro, ancorché non si voglia insistere sui sottili legami simbolici che coniugano l’esperienza di Giliberti con quella del pensatore americano, non può tuttavia essere trascurato l’aspetto connesso alla decisione di “andare nei boschi”, emblematica condizione evocativa dell’esperienza di introdursi nella selva di dantesca memoria, per giungere alla rivelazione della propria ‘vita nova’ o vita ‘saggia’ che già fu parimenti quella stessa compiuta da Polifilo nella celebre narrazione quattrocentesca della Hypnerotomachia. Molto più pragmaticamente, però, Giliberti, oltre all’avventura estetica, non trascura l’impegno di un’autentica azione produttiva nell’arboricoltura da legno intrapresa nelle selve cedue dei territori pedemontani della Valle Caudina. Tale nuova esperienza lo induce a una conoscenza assai specifica di una quantità diversificata di problemi, sia relativi alle diverse esigenze dei boschi, la cui natura antropica esige soluzione di annose questioni come l’abbandono, l’incuria, l’incendio, sia alla lavorazione delle diverse specie arboree, dal castagno al ciliegio, al noce, al melo e alla robinia, a fini produttivi. Giliberti non esita ad affermare che questa nuova attività lo ha mosso a esercitare facoltà fino ad allora in lui sopite e mai prima espresse.
Giova ricordare che, nel percorso artistico di Giliberti, l’istanza dell’impegno civile ha sempre affiancato la sperimentazione linguistica e che, indubbiamente, in lui si è sempre manifestata una sensibile capacità organizzativa, soprattutto connessa a problemi sociali, culturali e politici. Dopo la partecipazione ai movimenti giovanili negli anni Sessanta-Settanta, evocata in quella rassegna Memoria ribelle, Parole, Immagini (…) dagli anni ’70, (2003)[iii] realizzata presso la Mostra d’Oltremare di Napoli, in collaborazione con il Teatro Nuovo di quella città, le altre iniziative da lui considerate “progetti particolari” come il restauro della Masseria Varco ( work in progress dal 2006) sono state, come si è accennato, il progetto Pompeiorama (con Mario Franco e Nino Longobardi dal 1998 al 2001) in collaborazione con gli Incontri Internazionali d’Arte presso la Casina Pompeiana e il Terminale Marianella in collaborazione lo studio Pica Ciamarra e Salvatore Cozzolino finalizzato alla creazione di un centro per l’arte contemporanea nella periferia di Napoli (1994-2003).
Lavoro organizzativo, dunque, come lavoro culturale; creare condizioni per relazioni tra i soggetti, suscitare potenzialità, sollecitare istituzioni, realtà sociali al fine di rendere possibile l’attività artistica e la crescita collettiva e individuale in un territorio altrimenti destinato al degrado o all’assenza di qualsiasi iniziativa capace di riqualificare i nuovi insediamenti urbani periferici. La capacità di polarizzare e coordinare le numerose esigenze e necessità ha reso possibile l’avvio e lo sviluppo di progetti messi in piedi da Giliberti e alcuni suoi colleghi, ma che dopo alcuni anni si sono estinti poiché all’azione degli artisti non è corrisposto un adeguato sostegno istituzionale e pubblico. Numerose sono state le occasioni in cui, invitati da Giliberti, alcuni di noi si sono recati a Napoli offrendo sostegno e collaborazione per dar vita a iniziative sempre piene di aspettative. Tali richiami si rendono necessari per comprendere che nel lavoro artistico di Giliberti la componente intuitiva e di aperta sfida alle circostanze è sempre presente e attiva.
Ancor prima di considerare dunque quelle opere che si identificano strettamente con la nuova fase creatrice dovuta al progetto della Masseria Varco, preme indicare alla riflessione una serie di elementi che definirei di presunta estraneità estetica e che introdotti invece nell’azione hanno fornito nuove coordinate all’orizzonte operativo di Giliberti:
- il vincolo della redditività economico-industriale a base dell’azione
- il fattore dell’identità operativa: operai non operai, assistenti-dipendenti
- conoscenza del prodotto da elaborare, cultura e scienza boschivo arborea
- relazioni di struttura societaria
- produzione dopo le fasi di elaborazione e trattamento del bosco; fasi preliminari e fasi di sviluppo
- mutamento delle condizioni di vita ambientale, privata, organicamente organizzata
- metamorfosi psicologiche, antropologiche e comportamentali
- osservazioni del vuoto operativo e degli esiti d’opera entro un contesto sociale che non ne ha consapevolezza estetica se non alla stadio neofita
- solitudine nella concezione artistica aumentata dallo stato di estraneità circostante all’azione artistica stessa. Non potersi confrontare mentre si pensa o si agisce. La volontà di estendere la coscienza artistica vincendo in tal modo il senso di solitudine
- rinunce alle condizioni di protezione nel corso dell’intera esperienza
- l’agire rabdomantico, avanzando nel non noto e nell’indefinito
- lo spostamento dell’atto artistico in zone inusuali come aperto pieno di rischio
- condivisione avventurosa e pionieristica di strade apparentemente solitarie ma praticate anche da altri artisti (M. Nordman. M. Pistoletto, J. Beuys, etc.)
- da ultimo una verifica indiretta: l’espressione “se ne apprezza l’impegno che c’è, si vede che è una cosa strana” è usata in mia presenza da un fortuito osservatore che, pur non provvisto di strumenti per formulare un giudizio critico, di fronte alle opere manifesta una percezione sensibile di esse e se ne lascia visibilmente colpire. A mia volta ne resto sorpreso.
Il sentiero dell’inedito
Il fatto è che ogni ricerca che si inoltra nelle selve del cambiamento d’essere riporta a quell’Holzweg (Heidegger) di cui legnaioli e guardaboschi conoscono tracciati e interruzioni in funzione della custodia e salvaguardia del bosco che sono usi percorrere.
A questo punto, nell’obiettivo di nominare quel che è l’essere legnoso, l’essere ceroso e l’essere colorato delle opere di Giliberti ricavate dalla nuova esperienza in atto, non sarà inutile dire che nessun materiale impiegato resta tale quando la sua qualità di lavoro d’arte è raggiunta. Perciò, anche questa nuova fase dell’opera di Giliberti, in realtà, nonostante sia profondamente mutato il contesto entro cui essa è concepita, non differisce essenzialmente dalle esperienze formalizzate in precedenza, se non nelle intenzioni progettuali e nei procedimenti attuativi.
Ciò significa che il nocciolo dell’intenzione poetica di Giliberti è restato immutato.
Così, sotto questa industria, si rivela la nuova azione estetica intrapresa; c’è un movente, manifesto a taluni e a molti ignoto. Un’impresa che nutre in sé un ulteriore destino diverso della produzione che pure consegue e diffonde. Obiettivo inconfessato ma di massima risolutezza; concezione tesa tra un progetto pragmaticamente ineccepibile e un’idealità non meno concreta ma assolutamente non circoscrivibile. Giliberti ha già fornito, in tal senso, tracce della sua azione artistica negli ultimi cinque anni. Riprendere in considerazione lo stesso obiettivo, in realtà mai – nemmeno per un istante – abbandonato, semplicemente cambiando presupposti, leve di soluzione, attitudini, tecniche, metodi, strumenti, in parte anche interlocutori, luoghi, condizioni di vita, insomma quasi tutto, per conseguire nuovamente uno stesso risultato estetico. Certamente però, la modificazione della prassi reca una enorme quantità di esperienza diversa, cosa non indifferente. Il soggetto di questa nuova azione è anche antropologicamente, diversamente dotato e arricchito di abilità e capacità prima non rivelatesi. Ad esempio – come egli stesso afferma – la capacità di “essere venditore”.
Le opere
Dall’ambiente fabbrile dello studio a Rotondi, dove all’effluvio pervasivo delle cere scaldate in tegami di alluminio su un fornello a gas si mescolano gli odori dei legni elaborati a supporto d’ogni creazione, le opere sono ora immerse nell’algido ambiente della galleria romana Guidi & MG Art.
Come per la prima mostra nel 2008, nuove superfici di legno e cera pigmentata su telaio di legno, come Senza titolo, 2010 evocano con fasce alternate un’orizzontalità che sembra provenire dalla stessa ritmica di scansione dell’assito di rivestimento del laboratorio-falegnameria di Varco. Autentiche tarsie cerose, le superfici lignee accolgono e raffreddano in sé la fusione materiale profumata e opaca. Come già per il gruppo di opere elaborate per la mostra di San Donato in Val Comino (2009) anche le nuove opere di questa apparizione pubblica, come ad esempio il grande Così è, 2010, sono orientate alla messa in risalto, in modi diversi, della componente lignea, dell’inserto in essa della fusione di cera d’api e dei pigmenti su tela, quasi a voler armonizzare le componenti essenziali del lavoro, non trascurando ovviamente il dato cromatico, nel caso richiamato, preminente.
Ma l’occasione è prodiga. Accanto alle tavole di diversa misura, in mostra figura anche l’opera dal titolo Teca, 2010 a base di grandi fogli di carta e collages di fiches sottili di legno di melo ricavate dal taglio di piccolissimi rami di potatura, affettati. La disposizione seriale dei piccoli dischi secondo allineamenti regolari, diversamente dalla serialità delle Zanzarine disposte a quinconce nelle decorazioni del Parkhaus di Düsseldorf (2002) e di Castel Sant’Elmo a Napoli (2003) simula un ordine che in realtà è solo parzialmente reale, poiché ciascuna fiche è di forma e grandezza diversa. Ognuna di tali particole di legno, infatti, conserva la sottile corteccia scura e sulle facce chiare della fibra si osservano i distinti giri dell’alburno e del durame, oltre naturalmente al midollo, sviluppatisi nel corso della crescita vegetale insieme agli incidenti occorsi all’albero nel tempo: nodi, nei, fessurazioni.
Accanto a questo inedito ciclo di elaborati su carta, racchiusi in teche di legno e vetro, nello spazio più ampio della galleria Giliberti ha collocato la scultura Panchina-fiore, 2010 a forma quadrilobata in legno di pioppo centinato, internamente cava e disposta a essere esplorata dallo sguardo. Una ‘seduta’ per il pubblico che volesse sostare più a lungo davanti ai lavori che inducono il momento meditativo per la loro struttura e la loro provenienza.
Come per le “pitture estroflesse” (1987) e per le “lenti” (1987) in cui Giliberti ha sapientemente impiegato l’encausto (a base di cera naturale diluita con pigmenti e solventi, nonché vernici flatting per consolidare il materiale ceroso) e perfino per i “quadratini colorati” (1996) realizzati a migliaia su carta, su tela ma anche su ceramica, l’esecuzione accurata dei lavori, se osservata attentamente, consente di rilevare un residuo di gestualità nella stesura delle materie che conferisce un aspetto pittorico anche a una elaborazione naturalmente sconfinante nella qualità plastica.
Ciò che Giliberti lascia ormai trasparire dalla propria azione è un senso di rabdomantico procedere, non meno sicuro di un disegno calcolato e progettuale, attitudine che lascia intendere uno sviluppo continuo della sua tradizionale inclinazione alla sperimentazione di modi inediti, soprattutto ora che la reimmersione nel cuore dei boschi e di una Natura ‘forte’, da conoscere per potervi convivere e di cui vivere, sembra ampliarsi e offrire nuovi territori di incontro e confronto.
Persistenza del bosco nell’opera
In quella masseria Varco, poco distante dai luoghi in cui un tempo (321 a.C.) i Romani subirono l’umiliante sconfitta a opera dei Sanniti nella valle Caudina, il nuovo giorno, specie in inverno, per Eugenio Giliberti inizia con l’accensione della legna nel camino della grande cucina al pianoterra dell’edificio. La sera prima, arrivando all’imbrunire, era stato già possibile visitare la segheria e il deposito del legname tagliato e ordinato in cataste di assi ben rifilate. Visitando le due sedi divise dalla strada che le separa, si resta sorpresi di una discontinuità logistica in realtà superata dal continuo via vai compiuto tra l’una e l’altra sede da Giliberti e i suoi collaboratori. Ho osservato attentamente sia la masseria che la segheria. Entrambe recano antistante all’ingresso uno spiazzo. Quello davanti alla masseria resta immortalato dalla sequenza fotografica che ha portato all’opera Uno alla volta (2007), esito di una performance; quello davanti ai laboratori resta anch’esso consegnato alle immagini del video Lettura (2008), interpretato da Maria Pia Borgnini. Ovunque intorno la campagna e le fitte selve pedemontane concluse dai poderosi profili taburnici.
Una più lenta insorgenza immaginaria derivata dai ceppi di legna di Uno alla volta, disseminati sullo spiazzo antistante la casa, e la lenta discesa delle tenebre nel video Lettura hanno provocato l’effetto di rievocare alcune riflessioni dovute sia al pensiero di Gaston Bachelard, sia a quello di Emanuele Severino. Tutto parte dalla fantasticheria davanti ai ceppi che ardono: “il fuoco suggerisce il desiderio di cambiare, di affrettare il tempo (…) L’essere affascinato sente il richiamo dei ceppi. Per lui la distinzione è più che un cambiamento, è un rinnovamento” [iv], afferma Bachelard e gli fa eco Novalis “L’albero non è altro che una fiamma in fiore”.[v] Se non fosse per il fatto che uno degli obiettivi dell’antropizzazione dei boschi – come ricorda Giliberti – è quello di sorvegliare e impedire che avvengano incendi, si potrebbe continuare a dar corso a rêveries di quel genere.
Più incisivamente, passando a Severino, viene alla mente la sua celebre riflessione su La legna e la cenere rapportate al divenir-altro qui applicabile al traslato «la legna e l’opera d’arte». Se per il filosofo la cenere, in quanto risultato, non può essere considerato divenir-altro[vi] dalla legna, così per noi la relazione tra il materiale ligneo impiegato da Giliberti e l’opera non solo resta inerente, ma evidentemente l’opera continua a manifestare il suo essere legno del bosco.
Infine: cosa prova chi si reca in visita alla masseria Varco di Rotondi e osserva l’alchemico traffico che in essa si svolge? La qualità germinale sotto vari aspetti e gradi è una delle sensazioni più immediate e diffuse unita al sentimento di un vivere proto-urbano. Qualcuno potrebbe chiamarla ‘vita agra’, in opposizione a ogni forma di agio. Ma quegli aspetti che apparentemente sembrano denotare solo una condizione di disagio, col trascorrere delle ore o dei giorni si comprende che rivelano invece una più segreta qualità e perfino un gradevole sentimento di forza e affrancamento da molte necessità o pseudo bisogni indotti dai ritmi di vita consumistici. Quella di Giliberti e dei suoi compagni di avventura si rivela come un’esperienza che ‘forgia al di fuori della protezione’ (Rilke). Egli sembra in tal modo avere individuato una scelta qualificante per la maturazione del proprio linguaggio come della sua stessa attitudine all’arte. Reimmergersi criticamente nella natura, nel rischio vitale, nell’inedito, sinonimo d’invenzione e creazione, di vita nuova e di rinnovamento della propria arte.
Dicembre 2010
[i] Henry D. Thoreau, nato a Concord (Massachusetts) il 12 luglio 1817, pensatore, scrittore, autore di Walden, or the life in the woods, uscito nel 1854 e ispirato ai due anni trascorsi nei boschi di Concord. Morì nel 1862.
[ii] Henry Thoreau, Walden ovvero la vita nei boschi, B.U.R. editore, Milano 1964, 1964, p. 91.
[iii] AA.VV., Memoria ribelle, II edizione, 27 aprile-11 maggio 2003, Padiglione America Latina, Mostra d’Oltremare, Napoli, Edizioni Morra, Napoli 2003.
[iv] Gaston Bachelard, La psicanalisi de fuoco, Dedalo Libri, Bari, 1973, p. 140.
.[v] Novalis, in G Bachelard, La fiamma di una candela, Editori Riuniti, Roma, 1981, p. 43.
[vi] Emanuele Severino, La legna e la cenere, in L’identità della follia. Lezioni veneziane. Rizzoli, 2007, pp. 219-240.