ACCUEIL
Bizhan Bassiri, Krzysztof Bednarski, Stefano Bonacci, Sauro Cardinali, Luca Costantini, Andrea Fogli, Pietro Fortuna, Eugenio Giliberti, Karpüseeler, Mojmir Ježek, Felice Levini, H.H. Lim, Gianni Lucchesi, Serenella Lupparelli, Vittoria Mazzoni, Vittorio Messina, Klaus Münch, Nunzio, Beatrice Pasquali, Alfredo Pirri, Renzogallo, Rivka Rinn, Giuseppe Salvatori, Marco Tirelli, Eduard Winklhofer
Studio Schomber – Roma - 2/24 aprile 2006
Accueil [akœ:j] , s.m. 1. accoglienza (f.), Centre d’accueil, luogo nel quale ricevere qualcuno che abbisogna di protezione, di rifugio. 2. accettazione (f.), accoglimento (m..), Bon accueil, attenzione ricevuta nel luogo dove alfine si giunge e si sosta. 3. iscrizione posta anticamente sulla soglia.
Nel quadrilatero formato dalle antiche chiese di Santa Maria in Campitelli, Santa Caterina dei Funari, Sant’Ambrogio della Massima e Sant’Angelo in Pescheria, tra il Ghetto e il Campidoglio, nell’isolato di Palazzo Lovatelli, l’architetto Giulio Savio ha ristrutturato negli anni Sessanta alcuni ambienti che oggi sono scelti come luogo espositivo e lavorativo da una donna che pone al centro della propria attività la questione del vestire i corpi con tessuti e gesti preziosi. In questo nuovo spazio, in un crocevia tra i più densi di culture, religioni e storie situato nel cuore più antico di Roma, venticinque artisti sono stati invitati ad esporre un piccolo lavoro e a costituire una densità che segni l’accoglienza. Un particolare accogliere nel proprio luogo opere di artisti contemporanei e un altrettanto generoso loro accogliere il visitatore sul filo di tensioni che si intrecciano. Il contesto diverso, sia per lo spazio (né galleria o museo e neanche abitazione privata) che per l’intenzionalità (l’accoglienza), determina una situazione particolare tanto per l’osservatore, abituato ad altre regole visive, quanto per le opere. Si viene così a formare una sorta di quadreria all’antica, un’accumulazione di sguardi e personali visioni, un’insolita spazialità generata dalla molteplicità che incuriosisce per gli echi e i riverberi che si determinano.
Gli artisti fin dall’antichità hanno posto attenzione alla situazione spaziale che si crea nell’emblematica distanza tra l’oggetto della visione e il soggetto osservante. L’opera, collocata nello spazio, legata al mito e in sintonia con la definizione architettonica, era artefice di una densità particolare nella quale il corpo dell’osservatore era immerso. La successiva distinzione tra le arti, i distinguo tra opera e opera, la nascita del concetto di quadro e di scultura mobile hanno creato nuove questioni che investono il modo di vedere, fruire e rapportarsi all’arte. Oggi le condizioni, che consideriamo naturali, in cui avviene l’incontro con un’opera d’arte sono per lo più simili in tutto il mondo occidentale: ad un eclatante clamore, che pare debba essere sempre necessario, che circonda l’apparire dell’opera corrisponde la sua collocazione, in sede espositiva, in un vuoto silente rispettoso del possibile spazio esistente al di fuori di essa. Questo ha abituato il visitatore a praticare l’osservazione in condizioni dettate da convenzioni o riferimenti che spesso prescindono dalle reali esigenze dei singoli lavori o dalle indicazioni degli artisti. In molte altre occasioni, nel privato, avviene invece il contrario: i collezionisti, o anche noi stessi, sistemano a volte le opere che amano senza gerarchia spaziale e in maniera indubbiamente personale, rispondendo all’impossibilità di ricostituire le condizioni espositive ottimali che rispettino la convenzione di una loro ‘corretta’ visione. Non per questo l’opera, in questi casi, non mantiene comunque saldo il suo rapporto univoco e preferenziale con l’osservatore, prescindendo spesso da ciò che avviene fuori di sé. Se però si pensa agli allestimenti di antichi musei o guardiamo le fotografie di alcune esposizioni delle avanguardie storiche stupisce l’accumulo di opere attuato con volontà possessiva e catalogatoria o per i particolari modi di porgere alla visione oggetti preziosi provenienti dal passato o dal proprio lavoro. Nella densità delle quadrerie antiche è il visitatore che deve rapportarsi con l’aura della singola opera, con il pensiero critico che essa suscita; ciò che le è stato posto accanto, dettato nella maggior parte dei casi da esigenze che l’artista non poteva prevedere, è altro da sé. L’osservatore si trova così immerso in una singolare densità, circondato da una moltitudine di differenti ‘aleph’ che con insistenza chiedono attenzione e lo richiamano a responsabilità intellettuali a volte lontane e divergenti ma che, attraverso il loro confronto e la loro compresenza, spesso inaspettatamente suscitano nuovo pensiero e speculazioni inedite.
Gli artisti invitati nello Studio Schomber appartengono a differenti generazioni: alcuni sono molto giovani, altri completano un trentennio di feconda attività. Il panorama che ne consegue presenta differenti profondità e prospettive e la loro collocazione nello spazio è volta a suscitare non solo la densità accennata ma anche una riflessione sulla situazione artistica contemporanea seppur esemplificata in maniera molto parziale.
Le opere, al di là delle singole scelte formali e della loro intensità qualitativa, presentano alcuni tratti comuni. Esse segnano, ad esempio, un clima radicalmente differente rispetto a quello dei loro maestri più prossimi legati alle neo avanguardie del secolo passato, pur spesso assunte come dato di partenza comune e non rinnegato. Tuttavia, il pensiero che le sorregge deriva da una nuova cognizione del mondo: un presente attraversato da media eterogenei, che affidano all’immagine risposte sempre più facilmente smascherabili, e dominato da una cultura superficialmente globalizzata e disattenta alle esigenze del pensiero estetico. Non è certo possibile concepire l’opera senza fare continuamente i conti, positivamente e negativamente, anche con le contraddizioni di uno spazio-tempo nel quale si è immersi e nel quale è necessario continuamente scegliere e rinunciare per generare nuove tensioni intellettuali. La costante messa in discussione del ruolo e della centralità dell’arte pone, oggi più che mai, questioni nuove agli artisti, che devono assumere inedite strategie e attitudini nel fare arte, sempre più coscienti di una loro diversità da ciò che una parte del mondo vuole che l’arte sia. La posta in gioco è indubbiamente alta. Le opere indicano la volontà degli artisti di ritrovare un rifugio, di un necessario ristabilire il perduto senso di comunità, di ancorarsi ad un più solido essere dell’opera attenendosi alle sue regole più intimamente costitutive. La situazione non è certo facile e richiede, come non mai all’artista, una consapevole assunzione di responsabilità nella quale la memoria storica è forse il solo conforto concesso.
L’arte del passato come sempre, infatti, affiora nei diversi lavori ed è sempre più ripercorsa senza inutili citazioni, assunta come presenza contemporanea, indicata come maestra ed esempio di un comportamento etico che l’artista riconosce e rinnova nella necessaria definizione dell’opera.
Come sempre l’opera non parla ma mostra la sua profondità antica rinnovando di volta in volta l’esistenza di un pensiero che proviene da lontano. Essa dona la possibilità di rispecchiarsi evocando il baratro di Narciso nel quale l’autore è il primo che rischia la perdita. Ciò che si nasconde nelle pieghe del tempo è ritrovato e ricollocato in una nuova dimensione del presente, soglia tra ciò che non è più e ciò che ancora non è. L’osservatore è conscio che essa non può fornirgli spiegazioni e risposte né essere consolatoria, poiché l’opera è l’interrogazione di sempre. Lo spazio-tempo coincide con essa nella dilatazione dell’istante dell’osservare. Nella sua variegata qualità, per essere vincente, e quindi relazionarsi con il pensiero sotteso nello sguardo, pone continuamente nuove condizioni e richiede sempre più tesa presenza a chi le si pone frontalmente.
L’osservatore ha dinnanzi a lui un nuovo panorama. In esso ancora questioni generate da un autoritratto o dal richiamo a proporzioni rinascimentali, dall’immagine evocatrice di nuove visionarietà o di spazi metafisici, dall’uso di materiali e procedure che ci riconducono all’eterna pratica della pittura, dal recupero di superfici ed elementi attraversati dal tempo; e molto, molto altro ancora. O a volte il solo semplice esserci dell’opera. Egli deve assumere un nuovo sguardo camaleontico e attento e lasciarsi accogliere con fiducia, nella densità generata dalla molteplicità, nella benevolenza dell’arte.
Aldo Iori, nei pressi del limen antico nel duemilasei