Eugenio Giliberti / testi / 1998 / Sylvie Parent / désengagé

 

 

 

 

 

Sylvie Parent intervista Eugenio Giliberti

 

SP: In questa mostra presenti due insiemi di lavori diversi. Puoi parlarci, per cominciare, dei "quadratini colorati", il lavoro su carta quadrettata che tappezza le pareti della galleria?

 

EG:Questo progetto origina da una curiosità, una voglia di vedere. Lavoravo su moduli monocromatici estroflessi e preparavo una mostra di trittici. La mia strumentazione tecnica mi consentiva di fabbricare 10 colori alla volta. Da questi, quindi, formavo tre trittici. Eseguivo un certo numero di composizioni su carta prima di procedere al lavoro su moduli, molto sinteticamente, com'è normale, ma mi domandavo come sarebbe stato se avessi provato tutte le combinazioni possibili. Partendo da questi dati, feci dei calcoli: le combinazioni possibili erano 75.400 per un totale di 680.400 superfici colorate.

La dimensione di un tale progetto era tale da uscire dal problema abituale della selezione dei colori nel disegno preparatorio.

Un lavoro simile si affranca dall'asservimento e acquista la sua personalità di opera.

 

SP: Hai voluto dare una struttura al lavoro? Organizzarlo?

 

EG:E qualcosa che si è prodotta naturalmente. Conservo i miei lavori precedenti in imballaggi aperti, ogni elemento partecipa così ad un ritmo ed ad un insieme sempre visibili. Già lì si esprime il desiderio di organizzare, classificare.

Fa parte della medesima attitudine la conservazione degli scarti e dei numerosi utensili fabbricati espressamente per le necessità del lavoro. Dopo mesi, o anche anni, questi oggetti prendono vita autonoma e diventano altro.

 

SP: Questo significa la fine di questo progetto? Dove ti porterà?

 

EG:Espongo per la prima volta i 680.400 quadratini colorati in una stessa sala con oggetti al suolo, gli oggetti che ho fabbricato negli atelier de l' Oeil de Poisson a Quebec. Il lavoro dei quadratini colorati rappresenta un'esplosione ed una definizione ultima. Ha messo fine alla serie delle superfici monocrome convesse. Il fatto che mi abbia preso tanto tempo (da dicembre 1994 a gennaio 1996) è stato forse determinante in questo senso.

Sono passato da una scala ad un'altra, da macro al micro, dal quadro ai quadratini, dove solo la dimensione del progetto ripristina la grande scala.

 

SP.: Come se avessi già realizzato in potenza tutte queste pitture, come se esse fossero già contenute nel progetto. Allora, come fare a stabilire il legame tra i volumi ed il grande disegno?

 

EG:Qualche anno fa sono passato dalle pitture estroflesse alle grandi lenti che presentavo al suolo. Si trattava di un passaggio dove la pittura, uscita dal piano, secondo la curva della convessità, abbandonando l'idea di rovescio, s'impone nell'occupazione dello spazio.

Qui, da un lato la pittura esplode in centinaia di migliaia di quadratini colorati, dall'altro prende definitivamente posizione/volume fuori della superficie. Questo processo, iniziato con le lenti, poi proseguito con la pittura senza supporto, è stato anche aiutato da qualche incidente. Facevo degli esperimenti per la fabbricazione di pitture senza supporto, senza la struttura in legno che utilizzavo prima. La cera dell'encausto permetteva alla pittura, dato un certo spessore ricavato dalla sovrapposizione di strati, di essere autonoma. Per errore riscaldai troppo una di queste pitture che si piegò su se stessa. Poco dopo aver realizzato così la pittura gialla piegata, realizzai, questa volta intenzionalmente, la pittura rossa arrotolata che sotto i miei occhi si rivelò come un tappeto. Un oggetto, a partire da una forma e da un concetto assolutamente astratti.

 

SP: Cosa hai pensato quando hai visto

apparire degli oggetti, tu che realizzavi delle pitture monocrome astratte?

 

 EG:Ero meravigliato e affascinato: la pittura aveva veramente conquistato lo spazio ed ora era libera di incorporarsi in oggetti. Chiamo questi oggetti platonici perché non sono oggetti quotidiani. Gli rassomigliano. Sono la realizzazione del sentimento di questi oggetti attraverso un disegno nello spazio, fatto di fil di ferro, e la pittura.

 

SP: Continui a chiamarli pitture perché sono realizzati come dei dipinti. Parli di disegno nello spazio realizzato con fil di ferro, utilizzi del tessuto per realizzare delle superfici che poi dipingi con l'encausto...

 

EG: Utilizzo il minimo indispensabile per armare gli oggetti per conservare questa idea di pittura, e poi sono sempre dei monocromi, come il lavoro precedente.

 

SP: Questi oggetti hanno in effetti qualcosa di strano, le loro forme, le loro dimensioni, non rispettano a pieno gli oggetti che rappresentano. Per esempio, il fil di ferro resta evidente alla base dei piedi delle sedie, le stesse sono di una dimensione leggermente superiore alla norma.

 

EG: Non voglio fare dei trompe l'oeil. Non voglio imitare. Voglio che questi oggetti restino pittura, artificio. Solo un visitatore molto distratto può avere l'impulso ad adoperarli, per esempio, sedendosi su pittura in forma di sedia.

È la realizzazione dell'idea di questi oggetti semplici che mi interessa.

 

SP: Perché scegliere questi oggetti?

 

EG:Sono passato dalle forme semplici, il quadrato, il cerchio, a qualcosa di più complicato, ma queste nuove forme devono conservare la loro universalità e gli oggetti che rappresento sono oggetti universali nella loro semplicità di vaso, di sedia, di quadro o tappeto.

 

SP: Nella scelta degli oggetti, come nella maniera di farli, il tuo lavoro conserva quella parentela, di cui già avemmo modo di parlare, con i mestieri artigiani, il formatore, l'ebanista, il vasaio.

 

EG:Sono sempre stato affascinato da certi gesti, come quello dell'ebanista: gesti che tutti possono fare, ma che solo se fatti da lui sortiscono la magia di una superficie levigata e specchiante.

 

SP: L'encausto, che tu utilizzi crea l'impressione di una materia vivente sotto un pellicola specchiante e produce una situazione di turbamento per lo spirito e per i sensi. Questo trattamento della superficie realizza una tensione tra presenza materiale e immaterialità. Puoi spiegarci questo?

 

EG:Cerco soltanto di esaltare la capacità espressiva di un certo materiale, la sua verità, sulla quale ho scommesso al

momento di decidere di utilizzarla. Ho optato per l'encausto dopo una ricerca che ha incluso anche materiali più moderni, come le gomme al silicone, le resine, le pitture acriliche industriali, etc. La mia riduzione di questa tecnica si realizza attraverso un processo strutturato molto lungo, in cui la fase di raffinazione e di politura è particolarmente pregnante e attraverso la quale l'encausto rivela le sue sorprendenti qualità. Ne risulta questa tensione evidente tra la pittoricità della materia, percepita come interna, e politura della pellicola esterna, propriamente dovuta alle qualità dell'encausto, ed una tensione addizionale, che è un prodotto involontario (per scarto) dovuto alla percezione della fragilità del risultato che conduce ad uno stato di sospensione.

 

SP: All'origine di tutto il lavoro è evidente l'importanza del colore. Puoi dirci perché decidesti di realizzare dei monocromi?

 

 EG:I colori sono la pittura e, in questo senso, documento di una tradizione eroica. Decisi di lavorare con un colore per volta per esaltare il piano di congiunzione dell'esperienza del creatore con questa tradizione, per evitare ogni tentazione di racconto e liberare la purezza dell'intenzione.

 

SP: Ora, vorrei tornare ai quadratini colorati, come al legame ed allo scarto che si possono stabilire con gli oggetti volumetrici che hai realizzato. A causa del gran numero, del carattere sistematico e della griglia che li accoglie, i quadratini fanno pensare a tutti quei sistemi matematici che spariscono al servizio dell'attività umana. Penso all'informatica per esempio, alla tecnologia in generale. Il lato molto fisico, molto sensuale degli oggetti, si differenzia anche se c'è un legame di materia tra i due universi, costituito dall'uso dell'encausto.

 

EG:Credo che la dimensione del lavoro renda questo più evidente, ma la matematica è immediatamente coperta dalla fattura. L'esecuzione dei quadratini è imperfetta, anche se il sistema è esatto. E la stessa risorsa che genera il sistema scientifico, l'intuizione è tutt'altro che geometrica. Il mio lavoro è fatto di queste considerazioni. Grazie ad un lavoro esecutivo molto lungo, originato dalla voglia forte di vedere, il pensiero si insedia, possiamo dire, in parallelo.

 

SP: Per finire: perché hai voluto dare questo titolo désengagé. Di quale engagement si tratta e come il désengagement si esprime nella mostra?

 

EG:In un primo tempo avrei voluto intitolare la mostra dégagé e cioè svincolato, liberato, che è lo spirito in cui mi sento ad ogni svolta del mio percorso creativo. Ogni svolta è un processo di liberazione difficile, e sempre di più andando avanti con gli anni, perché è una liberazione da me stesso, dal più severo guardiano. Alla fine ho optato per il termine désengagé per l'aggiunta di ambiguità che è insita in una parola, che quasi ricalca l'altra nel suono e nel senso. Per me che non sono francofono, quel sen ridondante congiunge i due significati in maniera musicale. Naturalmente c'è una relazione tra il titolo e quello che mostro, in particolare bisogna immaginare cosa significa restare tesi come una molla per 14 mesi solo e unicamente su un lavoro, e quanto sia quindi liberatorio uscire fuori da questa disciplina (engagément) finalmente vedendo insieme tutti quei foglietti di carta sui quali, obbedendo ad un tracciato geometrico-matematico, avevo lavorato combattendo la noia e le distrazioni. E questa conclusione mi désengage: ha disimpegnato ed aperto il mio campo poetico.