Eugenio Giliberti, la Natura pensata
di Claudio Libero Pisano
(testo pubblicato nel catalogo della mostra "Ho le mani impegnate sto pensando")
Oltre venti anni di opere di Eugenio Giliberti costituiscono una imponente personale, allestita negli spazi del CIAC nel Castello Colonna di Genazzano.
L’artista costruisce un suo percorso all’interno delle sale, tessendo attentamente i fili tra il sé, l’opera e il luogo. Consuetudine che fa propria anche nella pratica quotidiana: il suo è un lavoro fortemente intriso di una scienza dei materiali mutuata dagli ambienti di vita e lavoro.
Un percorso espositivo costruito non seguendo un ordine cronologico, ma piuttosto un’ipotesi di presentazione di progetti attorno ai quali Giliberti ha lavorato a fasi alterne per diversi anni. Una sequenza ritmicamente scandita dalle diverse stanze del castello, ciascuna delle quali ospita una parte della poetica dell’artista.
Apre la mostra il Progetto di artista abitante (2003-2013) che, come spesso accade nella produzione di Giliberti, nasce da un’esperienza reale. In questo caso la presa d’atto del “privilegio” casuale di abitare a Napoli di fronte alla casa dove Leopardi visse dal 1835 fino alla sua morte, avvenuta nel 1837. Le opere che compongono questo progetto sono ben più di un omaggio al grande poeta, esse sono l’occasione per l’artista di approfondire lo studio dei luoghi e della vita di Leopardi a Napoli. Un’indagine compiuta sui testi e sulle biografie.
La ricerca d’archivio è diventata negli ultimi anni una costante di molti artisti in diversi paesi. Per loro, l’esigenza di comprendere e catalogare la storia passata e recente è un punto d’incontro ancor più dell’impegno politico e sociale. Archiviare significa capire chi siamo e chi siamo stati. Prendersi cura dei documenti che narrano ciò che è accaduto, rappresenta un gesto di responsabilità dell’arte, un tentativo di agire fuori da sé, dalle proprie intime pulsioni. Giliberti recupera questa esigenza partendo dalla necessità di scoprire gli anni napoletani di Leopardi. Non solo quindi uno studio colto e approfondito degli archivi, ma una rielaborazione dei documenti per ottenere un’opera compiuta, una ricognizione storicamente attendibile e un risultato di conoscenza messo al servizio di chi guarda. La scultura-installazione che accoglie lo spettatore si presenta come una grande scatola chiusa, vera e propria lanterna magica dalla quale, attraverso delle aperture, è possibile vedere una sorta di animazione tridimensionale. Una costruzione che ricorda i primi esperimenti di cinema. La sequenza è costituita da una serie di piccoli omini in cera che corrono sempre più velocemente fino a spiccare il volo. Per poi tornare a terra e ricominciare, fino all’infinito. Una luce a intermittenza illumina solo una figura per volta, consentendo così una vera e propria animazione. Una sorta di scultura cinematografica, fatta con gli strumenti del cinema degli esordi. Nelle Operette morali Leopardi mette in relazione gli uomini e gli uccelli per il modo di esprimere gioia, nella loro comune propensione verso l’alto, il volo. Di spalle e in posizione defilata accanto a una finestra, c’è la scultura in cera e plastilina di un uomo in dimensioni naturali che guarda verso l’esterno. Verso la natura.
Il progetto prosegue nella stanza accanto, nella cappella del castello, dove
un’opera sonora (Confessione) ripercorre un momento difficile della
vita di Leopardi. Una spiacevole vicenda di debiti segnò i giorni del poeta.
Nella toponomastica della città, Giliberti individua i luoghi cari e le
persone frequentate; dal Caffè delle due Sicilie, al “Coloniali” del Barone
Vito Pinto, in via Toledo, alla bottega dell’editore Starita, che pubblicò
le ultime versioni dei canti e delle operette morali che non superarono il
vaglio della censura (un ulteriore esempio delle difficoltà e dei malumori
che caratterizzarono gli anni napoletani), fino al tipografo e incisore
Lorenzo Bianchi, al quale si dovette il protesto di una cambiale che
avvelenò Leopardi e i suoi familiari e ne mise in discussione i rapporti.
Questo episodio è documentato da fonti d’archivio
e da alcune lettere dello
stesso zio e tutore di Leopardi, Carlo Antici,
che tuttavia
non
conservò
la lettera originale che
Giacomo
scrisse
per
scusarsi dell’incresciosa situazione in cui lo aveva, suo malgrado,
coinvolto. Giliberti, dopo una minuziosa ricerca sui carteggi originali,
entra nei panni di Leopardi e risarcisce la mancanza storica dell’originale
reperto cartaceo scrivendo di suo pugno la lettera andata persa. Il
risultato è un’opera di rara intensità dove tutto diviene superfluo fuorché
la parola. Nel leggere con un sussurro la lettera, con una aderenza
all’intercalare e alla terminologia dell’epoca davvero sorprendente,
l’artista si fa carico di spiegare le ragioni che misero il poeta in
quell’increscioso stato di disagio e sofferenza. Chiude il progetto
leopardiano un dittico (Vico Pero), due sculture in cera che al
contempo accompagnano al progetto successivo. Due piccoli modelli uguali al
primo sguardo, che segnalano invece il prima e il dopo nella
topografia
cittadina. Com’era il quartiere e come successivamente venne trasformato dai
grandi lavori di risistemazione urbana dell’amministrazione francese. La
collocazione dello stabile e la veduta di cui godeva Leopardi dalle sue
finestre sul convento degli Agostiniani,
cui apparteneva il monaco chiamato al capezzale del poeta moribondo per
l’estrema unzione,
danno a Giliberti la possibilità di
ragionare sul rapporto tra cambiamenti materiali, memoria sociale e
persistenze linguistiche. Come la vecchia abitudine per la quale
ancora oggi gli abitanti
del quartiere
definiscono Via Santa Teresa ‘a via nova’.
Il dittico di Vico Pero conduce direttamente nella grande sala dove sono collocati i modelli, complesso di lavori definito Gesti di buona educazione (2003-2013). Si tratta di singole opere che rappresentano i luoghi dove l’artista ha esposto nel corso degli anni. Modelli di dimensioni diverse, solo abbozzati, con una resa volutamente imperfetta, che evocano certi luoghi piuttosto che rappresentarli. Non si tratta solo di un evidente omaggio a prestigiosi spazi che hanno ospitato le sue opere. Per Giliberti ogni bozzetto è una precisa responsabilità da assumersi consapevolmente. Troppo spesso gli artisti perdono il controllo del loro lavoro fuori dallo studio, dall’atelier. Difficilmente hanno un ruolo nel determinare lo spazio e gli allestimenti. Raramente si crea una relazione tra opera e luogo ospitante. Questi modelli segnano la sua volontà di sostenere il proprio lavoro fuori dallo spazio della creazione iniziale e favorire il dialogo con il fuori. È un modo per l’arte di esser grata per gli spazi che le vengono assegnati, un gesto di cortesia, semplice nel modo e nella resa materiale, volutamente sommaria e approssimativa, ma di grande forza per i rimandi poetici e forse anche politici, che suggeriscono a tutti gli artisti di mantenere uno sguardo vigile sul dove le loro opere vengono collocate. Perché esse si compiono anche nel contesto, nei luoghi che le accolgono. Mauro Panzera ha scritto parole perfette per descrivere questa serie di lavori: “Enrico Scrovegni che offre l’oratorio alla Vergine è certamente un episodio di alta pittura del ciclo giottesco padovano, ma segnala anche un pensiero estetico di una qualche importanza. Infatti al termine del lavoro pittorico l’autore distoglie lo sguardo e dipinge il contenitore come fosse un oggetto, un oggetto speciale, certamente perché è un dono. Stessa operazione farà il visitatore che giunto al termine della favola bella, di fronte al Giudizio Universale viene invitato a ricordarsi di essere all’interno di un edificio, ospite sempre gradito”.
Nella stanza degli Oggetti Platonici (dal 1996) torna prepotentemente la scultura con parti di mobilio in scala 1:1 realizzati alla perfezione e minuziosamente anche nei difetti dovuti all’uso. Sedie, un quadro, un vaso e un tappeto arrotolato in posizione quasi casuale, e una collocazione che sembra data dalla gestione quotidiana dell’oggetto. Tutto reale se non che la fragilità della cera, materiale con il quale sono realizzati, li allontana in maniera definitiva dal loro fine principale, la funzionalità. Sono oggetti da guardare e non da utilizzare. Non si tratta di mobilio di pregio, niente che rimandi esteticamente a grandi oggetti di design. Sedie e altro materiale d’arredo dalle fatture piuttosto elementari, basiche, sono lì unicamente per suggerire una loro funzione apparente. Un rimando alla memoria di ciò che hanno rappresentato nella quotidianità della vita. Per riconoscere il loro ruolo non serve utilizzarle. Sono esposte, ferme. Ma sanno tutto.
La serie dei quadri detti Sentinelle (2007) sono opere pittoriche che non si limitano a sostenere l’aspetto bidimensionale della pittura. Listelli di legno posizionati in modo continuo e orizzontale sulla superficie. Ogni listello è inframezzato da una linea della stessa dimensione di cera d’api colorata con pigmenti. Il Castagno, legno di montagna, e il Pioppo, legno di pianura, non sono utilizzati a caso. Entrambi racchiudono l’universo visivo dell’artista. La loro regolarità dispositiva ne fa delle vere sentinelle, a guardia della regolarità e del rispetto dei cicli di Natura. Per questa serie l’artista ha scelto uno degli ambienti più caratterizzati del CIAC, una stanza non troppo ampia ma decorata con una fascia superiore a tempera tardo ottocentesca che circonda l’intero perimetro. Uno spazio non facile, ai limiti del lezioso, che la perfetta regolarità delle sentinelle sembra positivamente raffreddare.
La serie delle Zanzarine è esemplificativa per capire il percorso artistico di Giliberti dagli anni Novanta fino a oggi, un cammino che ne ha fatto un artista appartato, ma per niente isolato dal dibattito degli anni in cui ci si tornava a interrogare collettivamente sul senso e sul ruolo dell’artista nella società. Napoli è stata una città al centro di quelle riflessioni con l’esperienza di LP - Lavoro Politico, che poneva le domande sul possibile ruolo della pittura ancora protagonista. All’interrogativo se essere rete o ragni, Giliberti si schierò decisamente dalla parte del ragno, che realizzò in grandi dimensioni di cera. L’aracnoide fu scelto non per ragioni estetiche ma come elemento fortemente politico. Azione di disturbo a una quiete del pensiero divenuta soffocante. Nel 2000 nelle mostre Castelli in aria, al Castel Sant’Elmo di Napoli e Futurama, al museo Pecci di Prato, espose delle zanzare in ferro e cera. Un insetto non meno fastidioso del ragno, seppur foriero di minori fobie. In quel periodo per Giliberti iniziò una riflessione sui limiti dell’aspetto scultoreo di questo soggetto, che rischiava di perdere il suo elemento fortemente polemico per divenire una sorta di oggetto Pop. Complice l’evidente delusione sulle possibilità di una riflessione collettiva e sul ruolo degli artisti, la zanzara finì col perdere i suoi aspetti più polemici. L’artista comincia così a dipingere l’insetto direttamente sui muri ad acquerello, con una leggerezza del tratto che la rende quasi impercettibile. Sopravvive un elemento per niente conciliato, dove permane l’aspetto aggressivo dell’insetto. Dove alla dolcezza del tratto si contrappone l’aspetto ambiguo di doppiezza, di ordine e decorazione. La maniacale disposizione a quinconce risponde a un’urgenza dell’artista che va ben oltre l’esigenza compositiva. Quinconce è un metodo per piantare gli alberi da frutto nelle campagne, ma è anche uno dei dispositivi per disporre truppe militari. Ancora una volta traspare con forza la volontà dell’artista di non sentirsi allineato. A nessun gruppo, a nessuna ideologia che non metta in primo piano la responsabilità dell’artista di fronte a ogni suo atto. Nelle sale del CIAC Giliberti realizza un enorme wall painting permanente, dove le quattro pareti sono interamente ricoperte di zanzarine dall’aspetto niente affatto rassicurante.
Il percorso prosegue nella sala dei Tondini (2010-2013), che non a caso si trova in successione alle zanzarine. Nel 2006 l’artista trasferisce il suo studio a Rotondi, nella campagna caudina/avellinese, dove fonda una comunità produttiva che lavora legname dei boschi del circondario. Questo trasferimento significa ritrovare una relazione (mai persa) con l’osservazione della realtà circostante, con l’impegno non rinviabile a seguire i cicli delle stagioni sugli alberi. Il suo lavoro trova un nuovo impulso proprio da questi luoghi che finiscono per entrare prepotentemente dentro le opere. Nella sala, due teche presentano una serie di tondini di rami di melo annurca disposti in sequenza. Sulla parete, tutt’intorno, oltre mille tondini della stessa pianta proseguono con regolarità minuziosa l’installazione, che fuori dalla cornice continua la messa in opera di un unico paesaggio visivo dalla semplicità disarmante e la potenza poetica inusuale. Solo la Natura, con i suoi elementi più elementari, sa parlare e disporsi fino a trasformarsi in opera. L’artista presta la propria manualità e la propria poetica come fosse un semplice esecutore, come se non servisse altro che mettere un pezzo di natura in condizione di essere osservata per creare conoscenza.
Anche il progetto Data base (2011-2013) nasce dalla medesima esperienza. Il meleto è un impegno, bisogna occuparsene. La scelta di non introdurre additivi nella cura degli alberi ha finito per privare la piantagione della sua prerogativa di dare “frutti economici”. Non produce economia ma è un elemento di comprensione del mondo e per questo bisogna responsabilmente prendersene cura. I centoventiquattro meli della proprietà sono ritratti fedelmente su diversi pannelli in legno, così come sono davvero, senza foglie e senza orpelli. Pura registrazione dell’esistente. Accanto a ogni albero il numero di serie che lo distingue. Nonostante la freddezza matematica nel dipingerli, senza concessione alcuna alla piacevolezza estetica, quest’opera racconta invece la vita vera fatta di cicli, attese e circolarità.
La stanza dei giochi (2008) è legata alla campagna intesa come luogo scelto dall’artista per lavorare, ma è anche un’opera strettamente connessa al ciclo dei modelli. Dove al posto dell’omaggio agli spazi espositivi, a essere costruita minuziosamente e in scala ridotta è una delle stanze dello studio-abitazione. Dove le opere vengono pensate e realizzate. Una stanza piena di colori, un luogo a misura di bambino dove accedere e dare inizio al gioco. Conclude l’opera un video realizzato nella stanza originale, che registra la vestizione di uno schermitore in previsione di un gioco-duello volutamente non documentato, e che si concentra piuttosto sul rito dell’attesa, sul tempo e sulle aspirazioni di un accadimento possibile. Dove l’idea del dopo ha la stessa forza del dopo stesso. Come nella costruzione infantile di giochi complicati che valgono per il bambino quanto la loro conclusione. Quale essa sia.
I cicli dei Moduli e delle Lenti (dal 1990) ritornano nella produzione dell’artista a più riprese nel corso degli anni. Entrambi nascono con l’obiettivo dichiarato di mantenere una radice pittorica. Superfici in legno estroflesso di dimensione quasi identica sono dipinte in cera colorata con pigmenti e levigate a mano, fino a ottenerne una superficie riflettente. Combinazioni di colori quasi infinite posizionate sulle pareti ogni volta stabilendo un legame con il luogo ospitante. Ogni gruppo di Moduli si rigenera ogni volta che viene esposto. E pur mantenendo ciascuno la propria autonomia, è solo in un contesto collettivo che trovano compimento. Le grandi Lenti, sospese o adagiate sul pavimento, hanno proprio nelle loro dimensioni considerevoli il senso di un esperimento pittorico complicato, il cui unico scopo è presentare la pittura così com’è.
Verso la metà degli anni Novanta, il ciclo dei Moduli diventa per Giliberti occasione di riflessione sulle potenzialità dei colori. Prendono forma i quadratini colorati, realizzati prima a pennarello e poi a cera su carta. Una ricerca ossessiva che si è tradotta in un lavoro monumentale. Seicentoottantamilaquattrocento quadratini colorati (1994-1996) è il risultato della messa su carta di tutte le combinazioni di dieci colori in tre trittici, a esclusione delle simmetriche. Le combinazioni sono migliaia e migliaia. In questo lavoro, dalle enormi difficoltà esecutive e che necessita di una concentrazione certosina, intenzione dell’artista è esaminare ogni aspetto di qualsiasi problema, senza tralasciarne alcuno. Per poter poi scegliere nel modo migliore. Ma il tempo necessario a cercare le innumerevoli varianti è tanto lungo da rendere relativa l’origine della ricerca. Ciò che resta e che conta è il lavoro stesso. Ancora una volta il tempo, la dedizione, il rispetto per uno degli elementi primari dell’arte. Un omaggio immenso al colore.
Questo viaggio nell’opera di Eugenio Giliberti lascia un bagaglio imponente. La sua è una natura minuziosa che insiste, con antica serietà, su dettagli che per altri sarebbero inconsistenti. Dotato di capacità manuali non comuni, l’artista è responsabile di ogni fase della realizzazione del proprio lavoro (finanche la realizzazione delle casse dei trasporti, che al Ciac abbiamo scelto di esporre e che sono elementi non secondari per conoscere l’autore). La ricercata perfezione nell’eseguire e poi nell’esporre il suo lavoro sarebbe maniera se non fosse sostanziata da un caratteristica fondamentale della sua produzione. La possibilità dell’errore che è sempre calcolata. Un insegnamento prezioso che l’artista mutua dalla Natura, perfetta proprio nel lasciare che l’imperfezione esista. Un dettaglio non riuscito non toglie niente alla assoluta regolarità dei cerchi di un piccolo melo annurca.
Il percorso di Eugenio Giliberti, visto attraverso le opere degli anni presi in considerazione per la mostra, rivela con chiarezza, e nonostante le fratture, una linea di continuità. Agli anni dell’impegno responsabile sono seguiti quelli dell’osservazione della Natura. Ma ogni fase si è sviluppata intorno al nucleo centrale della conoscenza. Un cammino che non ha distolto mai lo sguardo dall’osservazione di ciò che accade intorno. Solo così è dato capire e conoscere.
Claudio Libero Pisano